“A kid from Coney Island”, il documentario su Stephon Marbury

A kid from Coney Island è il documentario su Stephon Marbury, uscito il 10 marzo 2020 negli Stati Uniti, per ora soltanto in edizione limitata in alcune sale cinematografiche.

Il film ripercorre vita e carriera dell’ex giocatore NBA nato nel 1977, partito dalle case popolari dell’iconico e difficile quartiere di Brooklyn e arrivato a coronare il sogno di vestire la maglia dei New York Knicks, per poi trovare una nuova casa in Cina dove oggi gode di un’elevata venerazione.

Diretto dalla consolidata coppia di registi Coodie & Chike (Coodie Simmons e Chike Ozah, che hanno diretto tra l’altro Benji di ESPN 30 for 30), ha come produttori esecutivi Kevin Durant e Rich Kleiman, fondatori della Thirty Five Ventures e come produttori Forest Whitaker e Nina Yang Bongiovi della Significant Productions.

Stephon Marbury, da Coney Island alla NBA (e in Cina)

Fin da quando era una stella della pallacanestro liceale di New York, Stephon portava con sé l’impegnativo soprannome di Starbury. A kid from Coney Island è un emozionante racconto di come abbia superato un’immensa pressione e affrontato ogni avversità per inseguire l’obiettivo di giocare in NBA, traguardo sfuggito a tutti e cinque i suoi fratelli maggiori (lui è il sesto di sette figli). E poi, una volta ritrovatosi fuori della lega a 32 anni, di come abbia saputo reinventarsi dall’altra parte del mondo, giocando fino a 41, diventando allenatore e meritandosi addirittura una statua e un museo in suo onore a Pechino.

Non è un documentario di basket – spiega Coodie Simmons, il regista ed ex comedian di Chicago che ha iniziato nel cinema seguendo un emergente Kanye West – ma una storia familiare. I fratelli di Stephon provarono ad arrivare in NBA e non ce la fecero. Allora puntarono tutto su di lui. Vogliamo che la gente capisca che a volte non basta il talento, ma ad essere decisivi sono il crederci, la spinta, il sostegno. La sua famiglia ha supportato Steph, assicurandosi che potesse arrivare fin lì. Uno dei messaggi è questo: se ci credi ce la puoi fare. E devi lavorare duro”.

Così, dal cuore di Coney Island, dai projects di Surfside Gardens, è cominciata l’ascesa di Stephon Marbury, attraverso i successi con la Abraham Lincoln High School (il liceo che troviamo nel film He Got Game di Spike Lee, con tanto di Ray Allen alias Jesus Shuttlesworth che fa il nome di Stephon come esempio di uno che ce l’ha fatta), l’anno a Georgia Tech, le stagioni a Minnesota e poi a New Jersey e a Phoenix, prima di arrivare finalmente ai New York Knicks, diventando l’immediata personificazione del grande playmaker cresciuto sull’asfalto della Grande Mela che riesce a giocare in NBA al Madison Square Garden.

Quindi, i soliti problemi dell’ambiente Knicks, la rottura con Mike D’Antoni nel 2009 e il temporaneo passaggio a Boston gli aprono le strade del trasferimento in Cina. Dove, con i Beijing Ducks, diventa una gloria nazionale vincendo tre titoli. Oggi è allenatore dei Beijing Royal Fighters, squadra con cui ha concluso la carriera. “Andare in Cina è la cosa migliore che mi sia mai capitata – racconta al magazine SLAMe ne ho fatto la mia casa. Qui è dove mi è stato restituito l’amore per il basket”.

Una storia di famiglia e determinazione

A kid from Coney Island porta sullo schermo una storia di legami familiari, passione, determinazione, con cui tutti, non solo chi ha a che fare con il basket, possono immedesimarsi. La storia di come Stephon Marbury sia diventato un’ispirazione per i ragazzi di Coney Island attraverso un percorso disseminato di difficoltà, superate con il sostegno mai mancato della sua famiglia e della sua comunità di origine.

L’esperienza unica di un giocatore partito dal basso e arrivato a realizzare il suo sogno NBA, per poi essere costretto a reinventarsi in una nazione lontana, trovando qui una nuova e inaspettata vita, come nella miglior serendipity. A testimonianza del suo viaggio, nel documentario si susseguono interviste, oltre che a Stephon, anche agli ex giocatori Chauncey Billups e Ray Allen e a rapper quali Fat Joe e Cam’ron.

Le cose negative che accadono – dice l’altro regista Chike Ozah – sono in realtà benedizioni, solo che ancora non lo sappiamo. La chiave sta nell’accoglierle. Ciò che realmente rende tale una storia è il conflitto. L’antagonista, di qualsiasi tipo, che prova a impedirti di raggiungere il tuo desiderio. Non c’è storia senza contrasto, senza lotta. Non c’è bene senza il male. La vita di Stephon Marbury è questa: lui non è perfetto, il suo percorso è caratterizzato da alti e bassi, ma alla base di tutto ci sono sempre stati il rispetto e la passione per il basket“.

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