Mamba out

È la serata del 13 aprile 2016 a Los Angeles, In Italia il calendario segna già il 14, e presumibilmente albeggia. Non ricordo esattamente, perché di solito dopo una nottata di NBA passo dal letto quella mezz’ora buona prima della sveglia, per convincermi di aver pur riposato in qualche modo.

Mamba out” dice Kobe Bryant dal centro dello Staples Center, e lascia cadere il microfono sul parquet.
Si tratta dell’epitaffio di una carriera unica, e quei 60 punti con 50 tiri dal campo (CINQUANTA) sono tutto quello che ci resta da rivedere.
L’ultima cosa da passare e ripassare al microscopio, come abbiamo già fatto con tutte le “puntate precedenti”, per un ventennio di pallacanestro. Seguendo un ragazzino di 18 anni nella sua crescita fisica e mentale, fino all’ultimo atto dichiarato.

Sì, va bene: Mamba out, ma io non ci credo.
Non ci credevo quella mattina, e ancora meno il giorno dopo durante il rewatch della partita.
Lo abbiamo visto trascinarsi per tutto il suo farewell tour, combattendo con dolori e acciacchi in onore di ogni persona accorsa nei palazzi d’America per applaudirlo.
Ma forse a causa di Michael, della loro somiglianza in campo e di quella cattiva abitudine nel vedere il più grande di sempre ritirarsi e tornare, il Mamba out non mi convince mica.
Quello è Kobe Bryant, l’uomo più innamorato del Gioco che si sia mai visto, ossessionato dalle sfide della vita e dalla palla a spicchi, vuoi che non lasci passare un anno e poi magari decida di tornare?

Macché out, Kobe!
Io già ti immagino in una conferenza stampa epocale allo Staples Center – con quel sorriso inconfondibile e gli occhi accesi – trovare una soluzione impattante al pari del jordanesco “I’m back” per far felice il mondo. E non solo i tifosi dei Lakers, gli unici che darebbero tutto per vederti con il sesto anello al dito.
Per arrivare a pareggiarlo, quel Jordan. L’uomo che ti ha motivato come esempio, ispirandoti nei primi anni di scontri, scavalcato per grandezza durante il secondo rientro ai Wizards.
Quando tu, a detta di tutti, eri vicino a un apparente apice di carriera. Che poi avresti ritoccato, e ritoccato e ritoccato ancora, passando per gli 81 contro i Raptors, fino alle vittorie senza Shaq, da leader assoluto di una squadra, uno spogliatoio, una città.
È difficile circoscrivere quando effettivamente tu abbia toccato quell’apice, Kobe.
Molto di più rispetto all’avvio di un declino fisico che non ha mai intaccato la tua forza mentale, infortunio dopo infortunio, rialzandoti fino a quando non hai deciso di dire basta, di chiamarti fuori.

Ma io non ci credo, e continuo a battere il pugno sul tavolo anche dopo la firma di LeBron con i gialloviola.
Quello che per molti era il tuo ultimo antagonista, il predestinato a superarti nei record statistici, che ancora non ha messo piede in campo con la nuova canotta e tutti già paragonano a te. Ai tuoi sacrifici per la maglia, per la storia della franchigia, per la lega.
La gente parla come se fra voi due ci fosse ancora una sfida reale, agonistica, sistemandosi insensatamente da una parte o dall’altra. Perché ci hai abituato talmente tanto alla competizione, che è impossibile non gettarti nella mischia delle classifiche di opinioni.
Che si tratti del miglior giocatore nella storia, del più grande Laker di sempre o del quintetto ideale All-NBA, poco cambia.
Ci serve immaginare ancora un Kobe al centro del ring, e non potendo accettare quel dannato Mamba out, il perimetro diviene virtuale.
Un vacuo esercizio di stile, per riempire i forum online o le serate tra amici, accapigliandosi fino all’ultimo aneddoto che giustifichi la teoria definitiva, che ti ponga sulla cima della collina senza possibilità di controbattere.

Mamba out un cazzo, ripeto.
E lo faccio a voce alta, accompagnando la mia convinzione con un sogno, che decanto con espressione estasiata.
Ma ti immagini se Kobe torna a fianco di LeBron, magari poco prima dei playoff, oppure l’anno prossimo?
Ma ti immagini come sarebbe bello se vincessero il titolo insieme, per il passaggio di testimone più incredibile nella storia dello sport?
Ti immagini cosa significherebbe veder Bryant in campo – anche per un solo tiro – nel 2020? Visitare il quarto decennio sul campo, superando qualsiasi uomo mai sceso su un parquet a quei livelli!
Michael non l’ha mai mantenuta quella promessa di ritornare ancora, a 50 anni.
Il Black Mamba di anni ne avrebbe poco più di 40, ma non è quello il punto: ripresentarsi dal nulla, in quella maniera, lo porrebbe su un piano differente rispetto a chiunque altro nel pianeta.
Sarebbe onnipotente, e per sempre.

Kobe Bryant – nella realtà e quindi fuori dalle mie visioni oniriche – probabilmente non ci pensa neanche lontanamente di rimettersi scarpette e canotta, ma se esiste una persona tanto caparbia da poter installare il beneficio di un dubbio tanto assurdo, quello è lui.
Ed ogni volta che appare con la figlia Gianna a bordo campo, che le telecamere lo inquadrano sorridente, io ritorno un po’ a sperare.
Credere in qualcosa di bello ed improbabile non costa niente, per fortuna.
Facessimo tutti dei sogni grandiosi ogni notte, lasciandoci influenzare dalla loro scia al risveglio, vivremmo forse meglio la nostra quotidianità, no?

Insomma, io a quel Mamba out non c’ho mai voluto credere. Ho sempre continuato a sperare.

kobe bryant lebron james

Poi, la mattina del 26 gennaio 2020 un elicottero cade sulle colline di Malibu. La violenza dell’impatto, si dice, è di quelle irreversibili. Da noi, è quasi l’ora di cena.
Quello che filtra rapidamente è che Kobe si trovava là dentro. In seguito ci dicono pure che la piccola Gianna lo stava accompagnando. Chiaramente anche il pilota è morto, perché delle 9 persone a bordo nessuna sopravvive.
Tutti deceduti all’improvviso, in una domenica qualsiasi, per una serie di cause difficili da capire nell’immediato, e probabilmente per le settimane seguenti.

Mamba out quindi, stavolta letteralmente.
Ma io continuo a non crederci: in fondo la notizia è solo uscita su TMZ, e poco conta che mentre lo ripeto appare anche su altre testate, poi pure nelle televisioni italiane che ho appena acceso, infine sull’ANSA e sulle principali agenzie mondiali.
È tutto tristemente confermato, ma io aspetto la conferenza stampa ufficiale della Polizia di Los Angeles, dove lo sceriffo non conferma i nomi delle vittime semplicemente perché i corpi sono irrecuperabili sul momento.
Ma per me si tratta di un appiglio, e resto incollato al tablet sintonizzato in streaming sulle dirette statunitensi, aspettando una smentita, un segnale, qualcosa.
Ci rimango talmente tanto che a una certa ora mi addormento, ma non manca poi così tanto alla sveglia, un po’ come dopo quella notte dei 60 punti, dell’epitaffio, del microfono lasciato cadere sul parquet dello Staples.
La sveglia suona di nuovo, alla stessa ora. È lunedì mattina.
Accendo lo smartphone, mi getto per strada con gli occhi socchiusi, guidando con incertezza fino alla prima edicola, dove compro la Gazzetta.

Anche lì c’è scritto. Kobe Bryant se n’è andato davvero, Mamba out.
E solo dopo aver toccato quella prima pagina rosata, controllato bene l’inchiostro di stampa e riletto una decina di volte il titolo, devo gettare la spugna. Una cosa che non ti ho mai visto fare per tutta la carriera, Kobe.
E per quanto mi senta stupido a rivolgermi direttamente a te, senza averti mai visto né conosciuto, decido di completare l’opera con questo inutile quantitativo di parole. Per metterci una pietra sopra, almeno qui, nella realtà.

Perché nei miei sogni grandiosi, a giugno “abbiamo da giocarci una finale“, con il 24 e il 23 gialloviola fianco a fianco, contro chiunque, che tanto non importa l’avversario.
In questa dimensione decido io, e magari sarò pure a bordo campo in gara 7, fotografando con i miei occhi il tuo sorriso nell’alzare il Larry O’Brien Trophy per la sesta volta, una spanna sopra a LeBron, AD e gli altri, mentre dal soffitto dello Staples piovono stelle filanti a festa. Le solite americanate.

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