Prima che Danilo Gallinari, nel corso di un innocuo torneo estivo di preparazione al campionato europeo 2017, mollasse un pugno in faccia al pressoché sconosciuto Jito Kok, assurgendo alle cronache nazionali e guadagnandoci soltanto una frattura alla mano destra che gli impedirà di partecipare con l’Italia all’evento continentale, probabilmente quasi nessuno aveva mai sentito parlare di un’Olanda di basket.
In effetti, dalle parti dei polder e dei mulini a vento, non è che la pallacanestro abbia mai fatto molta breccia, nonostante una popolazione mediamente tra le più sportive del pianeta – un quarto dei circa 16 milioni di olandesi è iscritto a un club e due terzi pratica sport con frequenza settimanale – e, secondo alcuni studi, una delle più alte del mondo in quanto a statura, aspetto non certo di poco conto nel basket.
I Paesi Bassi – il termine Olanda, che per sineddoche si è esteso a identificare nell’uso comune l’intera nazione, si riferisce propriamente alle due province costiere che annoverano le principali città come Amsterdam, Rotterdam e L’Aia – sono soliti brillare in alcune specifiche discipline, e non sempre con continuità. Gli olandesi hanno cambiato la storia del pallone con il calcio totale, sono i numeri uno d’Europa nel baseball, sono forti nel ciclismo, nell’hockey su prato e nel pattinaggio su ghiaccio di velocità e ci sono stati momenti di gloria nella pallavolo. C’è persino una miriade di sport tradizionali molto seguiti, tra i quali il più noto è il korfball, ma il basket maschile (leggermente meglio il femminile) è sempre rimasto nelle retrovie, con il massimo risultato del quarto posto all’europeo 1983 e la partecipazione al mondiale 1986. Tutto questo nonostante la presenza di una lega professionistica dal 1946 e l’approdo di ben sette giocatori in NBA nel corso della sua storia.
Gli olandesi in NBA
Chi sono, questi sette temerari? Il primo, in epoca più o meno pionieristica nei secondi anni ‘40, fu Hank Beenders, guardia-ala con 111 presenze e 8,4 punti media nell’allora BAA con i Providence Steamrollers, i Philadelphia Warriors e i Boston Celtics. Molto più noto Swen Nater, centro classe 1950 nativo di Den Helder, uscito da UCLA, tre anni in ABA con i San Antonio Spurs e i Virginia Squires e poi 489 gare in NBA tra Milwaukee Bucks, Buffalo Braves, San Diego Clippers e L.A. Lakers (12,1 punti e 10,8 rimbalzi di media) per concludere la carriera in Italia a Udine.
Più che altro una comparsa fu Geert Hammink, natali olandesi e college a Louisiana State, appena 5 presenze con gli Orlando Magic nella stagione 1994-95 e 3 con Golden State nella 1995-96 (3,3 punti di media), mentre in tempi più recenti ancora un lungo, Francisco Elson da Rotterdam, è stato l’unico dutchman a vincere un anello NBA, nel 2007 con gli Spurs, nel mezzo di una carriera iniziata in Spagna e proseguita con Denver, San Antonio, Seattle, Milwaukee, Philadelphia e Utah. Per lui tra i pro’ 472 partite e una media di 15,7 punti e 3,4 rimbalzi. 527 invece i cartellini timbrati da comprimario dall’ala forte Dan Gazduric, nato nel 1978 a L’Aia da madre serba e padre di St. Vincent e Grenadine, otto anni a Milwaukee e poi Golden State, New Jersey Nets e New York Knicks. Totale: 4,7 punti e 4,4 rimbalzi.
Tuttavia, l’olandese più famoso, ricco e longevo a calcare i luccicanti parquet d’America e ad entrare più profondamente di tutti nei cuori degli appassionati è stato un altro: Rik Smits, The Dunking Dutchman, l’Olandese Schiacciante, un soprannome naturale che richiama The Flying Dutchman, l’Olandese Volante, il vascello fantasma condannato a solcare i mari per l’eternità, senza una meta precisa e senza poter tornare a terra, che ricorre nel folklore nordeuropeo e compare anche in quello straordinario medley di personaggi e leggende a tema piratesco che è la saga cinematografica Pirati dei Caraibi.
“Accidenti se mi piaceva quel tipo”
“È la maglia di Rik Smits?” gli ha chiesto.
“Proprio quella”.
“Accidenti, se mi piaceva quel tipo”, ha detto papà, e si sono tuffati in una conversazione di pallacanestro a cui non potevo (e non volevo) unirmi e quindi ho portato dentro i tulipani.
Questo passo è tratto dal romanzo, abbastanza triste in verità, Colpa delle stelle di John Green, diventato poi anche un film. Green, nativo proprio di Indianapolis, ha voluto fare un omaggio ai suoi amati Pacers facendo comparire la canotta numero 45 di Rik Smits addosso al giovane co-protagonista e ambientando una parte della storia direttamente ad Amsterdam. Una storia che “sa di olandese”, si legge in un altro punto del libro, “come Rik Smits. Come i tulipani”. Un esempio, la citazione di Green, di quanto Smits sia rimasto nel cuore e nell’immaginario cestistico di uno stato come l’Indiana che vive di basket, 500 Miglia e agricoltura, nell’ordine che preferite. Ma in generale la sua legacy è tuttora viva nella cultura pop, tanto che il rapper Asher Roth, che non è nemmeno dell’Indiana ma della Pennsylvania, ha intitolato un suo brano proprio Rik Smits.
Persona tranquilla, sorridente, alla buona, dotata di senso dell’umorismo, l’Olandese Schiacciante una volta in campo sapeva essere inquietante come l’Olandese Volante, terrificando gli avversari con le sue poderose affondate e spaventando con la sua infinita statura – con i suoi 2,24 è stato uno dei giocatori più alti di sempre nella storia del basket – chiunque si avventurasse dalle parti del canestro. Rik Smits, a differenza del suo connazionale Elson, non è mai riuscito a portarsi a casa l’anello di campione NBA (ci è soltanto andato vicino, alle Finals 2000), ma è stato un’icona dei gloriosi anni ’90, quelli in cui la NBA divenne globale.
Indissolubilmente fedele a una sola squadra, gli Indiana Pacers, con cui ha speso tutte le sue 12 stagioni di carriera NBA disputando 971 partite totali (867 in regular season e 104 ai playoff), Smits è stato un centro completo che, nonostante non tirasse da tre, riuscirebbe ad avere un ruolo di primo piano pure nella lega attuale grazie alla sua abilità di rim protector, una qualità così ricercata al giorno d’oggi, come difensore d’impatto e con la sua ottima padronanza dei fondamentali palla in mano. Troppo alto per essere stoppato ed elastico a tal punto da non poter essere fermato, le sue schiacciate a conclusione di un lob, di una transizione, battendo l’avversario dal palleggio oppure con un semplice movimento in post basso tratto dal suo infinito repertorio, erano in grado di scatenare l’entusiasmo del pubblico. Un sentimento che va al di là delle sue cifre le quali, a una prima lettura, potrebbero passare quasi inosservate: una media di 14,8 punti, 6,1 rimbalzi, 1,4 assist e 1,3 stoppate e con una sola convocazione all’All-Star Game, nel 1998. 12871 i punti totali segnati, 5277 i rimbalzi catturati, 1215 gli assist distribuiti e 1111 le stoppate rifilate agli avversari: queste le fredde cifre, andiamo oltre.
Rik Smits: gli esordi e il college
Nato il 23 agosto 1966 a Eindhoven, la patria della Philips, il giovanissimo Rik Smits è un ragazzo senza grilli per la testa che ha come unica aspirazione diventare il miglior meccanico di motociclette della città. Ama in particolare il motocross, ma tradizionalmente le due ruote fanno a pugni con gli spilungoni. I geni della crescita di questo biondo e allampanato olandese, infatti, sono particolarmente attivi e verso i quattordici anni, mentre la sua statura si eleva a dismisura al di sopra delle teste dei suoi coetanei (è già 2,08), compie il suo primo, provvidenziale incontro con l’oggetto che sarà il suo strumento di lavoro per il successivo ventennio: durante una festa, un amico gli lancia un pallone da basket. E lui lo afferra subito, guardandolo con aria incuriosita. Non servono altre parole. Smits decide presto di dedicarsi al basket, nel club del PSV-Almonte.
Compiuti i diciotto anni, nel 1984 coglie l’opportunità di dare una svolta consistente e definitiva alla sua vita, scegliendo di varcare l’oceano per frequentare l’università e giocare a basket a un livello più alto. Sbarca così nella cittadina di Poughkeepsie, nello stato di New York, per frequentare un piccolo ateneo cattolico, il Marist College, situato nella Dutchess County. Come suggerisce il nome, nei secoli passati i rapporti tra l’Olanda e questa zona dall’altra parte dell’Atlantico sono stati molto stretti: del resto, la stessa New York City per un periodo della sua primordiale storia si chiamò Nieuw Amsterdam. Tra il 1683, anno di fondazione della contea, e il 1715, i coloni olandesi erano in maggioranza su quelli inglesi.
Smits trascorre a Marist tutti e quattro i canonici anni di college – i tempi dell’one-and-done sono ancora lontanissimi – e con la divisa dei Red Foxes si afferma come maggior prospetto universitario nel ruolo di centro, raggiungendo in due occasioni il torneo NCAA. Oltre che fornito di centimetri in abbondanza da madre natura – la sua altezza perviene intanto al definitivo 2,24 – Smits è anche piuttosto fortunato: nella stagione 1984-85, quella da matricola, il posto di titolare sotto le plance dovrebbe appartenere allo jugoslavo Miroslav Pecarski (che qualche anno più tardi giocherà in Italia a Cantù), ma un infortunio in preseason apre spazio all’olandese, che conclude il suo rookie year con una confortante media di 11,2 punti e 5,6 rimbalzi, terminando la regular season a livello di squadra con 17 vittorie e 12 sconfitte e il primato nell’allora ECAC (Eastern Collegiate Athletic Conference) Metro davanti alla rivale di zona, la Fairleigh Dickinson, l’ateneo in cui, agli inizi degli anni 2000, giocherà l’italiano Andrea Crosariol. Allenatore di Marist è Matt Furjanic e lo sarà per l’ultima volta nella stagione successiva, la 1985-86, che segna l’approdo del piccolo college al grande ballo del torneo NCAA: dopo una regular season da 19-12, i Red Foxes si fermano però alla prima partita del tradizionale tabellone tennistico, perdendo 68-53 a Baton Rouge in Louisiana di fronte alla più blasonata Georgia Tech. Non bastano, in quest’occasione, i 22 punti di Rik Smits, il sophomore che ha fatto salire le sue cifre individuali a 17,7 punti e 8,1 rimbalzi di media.
Coach Furjanic saluta e al suo posto arriva Pete Magarity, che guiderà Marist fino al 2004 passando poi ad allenare la squadra di Army (l’Esercito) a West Point, dove si trova tuttora. Anche nella stagione 1986-87, terzo anno di Rik Smits, Marist approda al torneo NCAA, uscendo subito pure stavolta, sommersa a Tucson 93-68 da Pittsburgh, partita in cui Smits segna 16 punti catturando appena 2 rimbalzi. Quel che conta, però, è l’ulteriore crescita del lungo olandese, detentore durante l’anno di una media 20,1 punti e 8,1 rimbalzi e della vittoria nel torneo di conference arrivata battendo in finale gli antagonisti di Fairleigh Dickinson per 64-55, al termine di una stagione di 20 vittorie e 10 sconfitte.
Il quarto e ultimo anno di università – stagione 1987-88 – è particolare per Rik Smits. In regular season è un vero dominatore e ottiene le cifre migliori (24,7 punti e 8,7 rimbalzi), affermandosi come uno degli oggetti del desiderio del Draft NBA 1988. È infatti considerato il miglior centro puro del panorama collegiale, soprattutto dopo che in inverno si mette in mostra in un torneo al Madison Square Garden, giocando contro St. John’s. Qui va sottolineata una curiosità importante: nel film Il principe cerca moglie con Eddie Murphy c’è una sequenza di una partita di basket e si tratta proprio di quel St. John’s-Marist, in cui sotto canestro a fronteggiare Smits (che schiaccia) c’è pure l’italiano Marco Baldi.
Marist, però, non può accedere al torneo NCAA e lo stesso Smits, nella stagione precedente, era stato costretto a scontare una sospensione di 9 partite in seguito alla scoperta del fatto che un membro dello staff tecnico dei Red Foxes aveva pagato il suo biglietto aereo per la sua prima visita dall’Olanda, un benefit considerato irregolare dalle stringenti norme dell’organizzazione sportiva universitaria. A causa di ciò, Marist viene interdetta dalla partecipazione alla postseason 1988.
Marist, del resto, attraversa una situazione un po’ borderline. Militante in Division I soltanto dal 1981-82, il college è uno dei primi a reclutare con continuità giocatori internazionali, aspetto che attira sulla piccola realtà del New York State una notorietà nazionale. Oltre a Smits, in quegli anni ci sono i francesi Rudy Bourgarel e Alain Forestier, l’ungherese Peter Krasovec, il canadese Curtis Celestine, il già citato jugoslavo Miroslav Pecarski.
In quella stagione 1987-88, Smits può esprimere il proprio potenziale senza l’assillo del risultato a tutti i costi e inoltre, con Krasovec arruolato nell’esercito ungherese e Pecarski (ancora) in Europa a prepararsi alle Olimpiadi con la sua nazionale, l’olandese ha campo libero sotto canestro e tocca un career high di 35 punti nella vittoria per 80-53 contro Niagara.
Nonostante una tendenza a caricarsi di falli, per limitare la quale dovrà faticare non poco negli anni successivi, Rik è un giocatore incredibilmente completo in rapporto alla sua statura, capace di segnare con facilità (ha un buon tiro dalla media), andare a rimbalzo, stoppare, passare, correre in contropiede. Conclude i college years a Marist con 18,7 punti di media e inoltre è durante quel periodo che colleziona 12 presenze in nazionale olandese, partecipando all’unico mondiale degli oranje nel 1986 (tredicesimo posto) e nel 1987 all’europeo di Grecia (decimo). In seguito, dal 1989, i giocatori NBA diventeranno eleggibili anche per giocare con le nazionali dei loro paesi, ma Smits farà solo qualche comparsata in arancione, anche perché per molti anni l’Olanda non si qualificherà per le principali competizioni.
La carriera NBA agli Indiana Pacers
Rik Smits è il primo Red Fox a essere scelto al primo giro in NBA e il suo nome è il secondo a essere chiamato dal commissioner David Stern al Draft 1988, selezionato dagli Indiana Pacers. Prima di lui solo Danny Manning da Kansas, preso dai Los Angeles Clippers. Un dato non da poco, dal momento che negli anni ’80 gli international players scelti dalle franchigie NBA si contano sulle dita di una mano e che quella di Smits è tuttora l’ultima di Indiana avvenuta tra le prime cinque al Draft. Ma il giovanotto olandese con l’irresistibile mullet biondo è un elemento troppo interessante per essere scartato. E, cosa che non guasta mai, è nuovamente baciato dalla fortuna, perché in realtà lo spot di centro titolare è appannaggio di Steve Stipanovich, ma un grave infortunio lo mette definitivamente fuori dai giochi.
Così il giovane Smits, al pari di quanto gli era successo con Pecarski al suo anno d’esordio al college, anche in NBA si ritrova a partire in quintetto in ben 71 delle 82 partite giocate nella stagione 1988-89, in cui totalizza una media di 11,7 punti e 6,1 rimbalzi, oltre a 1,8 stoppate, in 24,9 minuti di impiego, che gli valgono un posto nel primo quintetto dei rookie. La stella della squadra è indiscutibilmente Reggie Miller, scelto al Draft nel 1987, ma Smits sarà sempre più parte integrante di una squadra dura e talentuosa che negli anni ’90 arriverà quasi a essere un simbolo della NBA. Tuttavia all’arrivo dell’olandese i Pacers non attraversano un buon periodo e chiudono quell’anno con un triste 28-54, cambiando ben tre volte guida tecnica (Jack Ramsay, la coppia Mel Daniels-George Irvine e Dick Versace), ma dal successivo le cose migliorano e per quattro stagioni consecutive Indiana, allenata ancora per un anno da Versace e poi per tre da Bob Hill, viaggia intorno al 50% di vittorie e si qualifica ai playoff, uscendo però sempre al primo turno, che all’epoca si disputa al meglio delle cinque partite: cappotto con i futuri campioni dei Detroit Pistons nel 1990, quindi due eliminazioni consecutive per mano dei Boston Celtics (3-2 nel 1991 e 3-0 nel 1992) e nel 1993 – anno della miglior media punti e rimbalzi di Smits ai playoff con 22,5 e 8,0 – la prima delle grandi battaglie con i New York Knicks di Pat Riley, vincitori 3-1, che caratterizzeranno il decennio.
Non sono stagioni facili per Rik Smits che, pur mantenendosi sempre in doppia cifra in quanto a punti realizzati, salta numerose gare per infortunio tra il 1990 e il 1992. Però è lo stesso un periodo di crescita importante per il centro olandese, che si avvia verso l’anno della svolta. Nella stagione 1993-94, infatti, giunge alla guida di Indiana coach Larry Brown e ai suoi ordini Smits gioca la sua prima stagione da vero leader: i Pacers, dopo aver chiuso la regular season con il miglior record della loro storia (47-35), ai playoff asfaltano gli Orlando Magic al primo turno, superano gli Atlanta Hawks al secondo e si fermano soltanto alla settima partita delle finali di conference di nuovo di fronte ai New York Knicks, nella serie ricordata per il gesto del choke rifilato da Miller a Spike Lee in gara 5, poi vanificato dalle due vittorie dei blu-arancio negli ultimi due incontri della serie. Smits, dopo una buona stagione regolare da 15,7 punti e 6,2 rimbalzi, nei playoff registra rispettivamente una media di 16,0 e 5,3. La “vendetta” sui Knicks si consuma un anno più tardi in semifinale di conference, al termine di una serie ancora una volta tiratissima e conclusa in gara 7 (rimonta in gara 1 con Reggie Miller che segna 8 punti in 9 secondi), per poi fermarsi in finale della Eastern Conference di fronte ai futuri finalisti degli Orlando Magic, di nuovo a gara 7. Smits viaggia in regular season a 17,9 punti e 7,7 rimbalzi, mentre nei playoff accresce le sue cifre a 20,1 e 7,0 e segna il memorabile canestro della vittoria in gara 4 nel giorno del Memorial Day.
Nella stagione 1995-96 i Pacers tornano a fermarsi al primo turno contro Atlanta, con Miller a lungo fuori per infortunio. Una stagione che Indiana ricorda soprattutto per essere stata l’unica squadra capace di battere due volte i Chicago Bulls del record 72-10 (superato solo dai Golden State Warriors edizione 2015-16), mentre Rik Smits totalizza la media punti più alta della sua carriera in regular season (18,5) e il suo career high di 44 piazzati ai Los Angeles Clippers. Nel 1996-97, l’ultima con Larry Brown coach, molti infortuni condizionano la squadra, che fallisce l’accesso ai playoff con un record insufficiente di 39-43 e anche Smits salterà 30 partite.
Bisognoso di dare una svolta alla franchigia, il presidente Donnie Walsh convince Larry Bird, ritiratosi da cinque anni, ad accettare la panchina dei Pacers. Lo spirito competitivo e la possibilità di allenare nel suo Indiana spingono l’ex leggenda dei Celtics ad accettare l’incarico. L’ambiente si infiamma. Bird riesce a instaurare un’efficace relazione con i giocatori e con lo staff tecnico e i risultati sono i migliori in assoluto nella storia della franchigia: due finali di conference consecutive, perse con i Bulls nel 1998 (58-24 in regular season) e con i Knicks nel 1999 (33-17, nella stagione breve del lockout) e quindi, dopo un bel 56-26, l’esaltante viaggio alle NBA Finals del 2000 dove soltanto i Los Angeles Lakers di Shaquille O’Neal e Kobe Bryant fermano Indiana conquistando il primo titolo del three-peat. Nei tre anni con coach Bird, un Rik Smits ormai sopra i trent’anni riesce a non avere infortuni seri, giocando quasi sempre con buon rendimento, ma dopo la sconfitta alle finali decide di dire basta, nonostante abbia ancora un anno di contratto. Il suo momento top i 24 punti segnati in gara 4.
La legacy di Rik Smits
Nel corso dei suoi dodici anni di carriera tra i professionisti, Rik Smits è riuscito a ottenere una convocazione all’All-Star Game. E’ successo nel 1998, durante la prima stagione degli Indiana Pacers con Larry Bird, grazie al grande lavoro di rivitalizzazione della squadra portato avanti dal biondo di French Lick. Non ingannino i normali 16,7 punti e 6,9 rimbalzi di media, che soprattutto se visti da oggi non scaldano più di tanto: Smits era un centro tremendamente efficace e prezioso in una squadra ricchissima di talento ed esperienza e che in quell’anno fu rinforzata anche da Chris Mullin. Alla partita delle stelle andata in scena al Madison Square Garden di New York, e che fu uno degli ultimi “romantici” All-Star Game in cui i giocatori scesero in campo indossando la divisa della propria squadra, suddivisi in “bianchi” contro “colorati” a mo’ di allenamento, l’olandese mette a segno 10 punti, 7 rimbalzi e 4 assist, distinguendosi per un passaggio dietro la schiena a Jayson Williams, il giocatore dei New Jersey Nets dalla sciagurata vicenda personale.
Sul valore di Rik Smits si è recentemente espresso Shaquille O’Neal, che lo ha affiancato a gente come David Robinson, Hakeem Olajuwon e Pat Ewing tra i centri che gli hanno creato maggiori problemi in campo. “Mi ha distrutto ogni volta – ha detto di Smits – pick and pop, jump hook in post… Se non fosse stato per i suoi problemi ai piedi non sarei mai stato capace di fermarlo. Quando con i Lakers lo affrontai nelle Finals 2000, riguardando vecchi nastri mi accorsi che ormai si era abituato a ‘uccidermi’ sotto canestro, così ora dovevo fargli capire che lo Shaq di quelle finali sarebbe stato ben diverso“.
Rik Smits, insieme a Reggie Miller, è stato il simbolo dei Pacers anni ’90 con la loro indimenticabile pinstriped jersey blu e gialla e, come già detto, è rimasto dentro la memoria del basket. Ha avuto due numeri di maglia: dall’iniziale 24, è presto passato all’iconico 45. Dopo il ritiro nel 2000, coinciso anche con l’addio di Larry Bird che avrebbe poi ricoperto in seguito un ruolo dirigenziale di primo piano, Smits ha continuato a scontare sul suo fisico di enormi dimensioni gli sforzi di una feroce carriera NBA, dovendosi sottoporre a multiple operazioni chirurgiche a quei piedi che lo hanno tormentato per anni (si scoprirà che aveva dei nervi danneggiati in quanto da teenager aveva portato a lungo scarpe troppo strette, e negli anni ’80 d’altronde non era facile trovarne della giusta misura per un piede numero 54…) e alla schiena, perché gestire una statura di 2,24 non è la cosa più semplice del mondo, per ulteriori informazioni chiedere a Yao Ming.
Padre di Derrik Smits, giocatore di Valparaiso University classe 1996 alto 2.18, e di Jasmine, avuti dalla ex moglie Candice, Rik Smits vive da alcuni anni in Arizona dopo aver passato oltre un decennio in Indiana, nella sua villa di Zionsville, e si dedica alla sua passione da ragazzino, il motocross, che pratica sia attivamente – con le sue lunghe gambe riesce a stare ben dritto in sella quando c’è fango – sia collezionando moto vintage.
E così, nel lontano West d’America, lontano da tutto, vive e si diverte un più che cinquantenne olandese di 2,24 che una volta era conosciuto con lo straordinario soprannome di The Dunking Dutchman, il più forte giocatore oranje della storia della pallacanestro, che battagliò sul parquet con Shaquille O’Neal e Dennis Rodman, che arrivò a un passo dal titolo NBA e che fu bandiera degli Indiana Pacers e icona degli indimenticabili anni ’90. Rik Smits, l’Olandese Schiacciante.