Un ordinario giorno di Sei Nazioni

17 marzo, San Patrizio, rugby. Sarebbe giorno da irlandesi – che infatti, nel frattempo, completano il Grand Slam, cinque vittorie su cinque nel Sei Nazioni 2018 – ma a Roma c’è Italia-Scozia.

Come ogni volta è la partita più attesa, quella in cui gli Azzurri confidano per evitare il whitewash, cioè il contrario del Grand Slam: cinque sconfitte su cinque, da non confondere con il cucchiaio di legno, assegnato invece all’ultima classificata. Quindi comunque a noi. Da qualche anno anche gli scozzesi sembrano esserci ormai sfuggiti di mano: a partire da Stuart Hogg, sono diventati troppo forti, in questa edizione hanno addirittura fermato l’Inghilterra. L’Italia dell’ovale si aggrappa al carisma di Conor O’Shea, il ct – lui sì, irlandese – al suo secondo Sei Nazioni e con un preoccupante zero alla voce vittorie, e alla grinta di un gruppo per forza di cose ringiovanito, a parte Parisse, Ghiraldini e Zanni. Il rugby è spietato, non aspetta nessuno.

Andare allo Stadio Olimpico per il Sei Nazioni – e prima del 2012 al Flaminio – è per me un appuntamento fisso da oltre dieci anni. Con me c’è quasi sempre il mio amico Simone, con cui condivido la passione per il giornalismo sportivo, spesso c’è il mio omonimo Francesco che si è appassionato strada facendo, e talvolta anche altri. Ci siamo stati con il sole, con la pioggia, con la neve, con il vento, con gli ingorghi stradali. Abbiamo vissuto questa esperienza fino in fondo, gioito e sofferto dagli spalti, fatto baldoria al Terzo Tempo Village e accaparrato gadget di ogni tipo. Abbiamo raggiunto il top quando Francesco si mascherò da Papa e fu il vincitore assoluto (e tra l’altro battemmo pure l’Irlanda, quel pomeriggio). E abbiamo intenzione di non fermarci. In questa giornata conclusiva del torneo 2018, per una serie di circostanze che hanno tenuto lontano i miei amici, ci sono solo io e ne approfitto per raccontare con parole e immagini quella che, ormai da “veterano”, è stata un’ordinaria giornata di Sei Nazioni a Roma.

Ore 11.05 – Villaggio Olimpico

Villaggio Olimpico Roma

Chiamatemi rompiscatole o paranoico, ma amo arrivare in largo anticipo a qualsiasi evento e non tollero arrivare tardi. Quindi arrivo in zona oltre due ore prima dell’inizio del match, che è alle 13.30. Parcheggio al Villaggio Olimpico, dalle parti di Piazza Grecia: un tempo era naturale lasciare l’auto qui, perché le partite erano al Flaminio, che sta a due passi; per raggiungere l’Olimpico c’è da camminare un po’, ma in compenso in queste silenziose vie tutte uguali si trova sempre posto con facilità.

Il Villaggio Olimpico, che ospitava gli alloggi degli atleti ai Giochi del 1960, ha un trascuratissimo aspetto di periferia degradata, con quei lunghi e vecchi caseggiati, il viadotto di Corso Francia che passa in alto e strade e verde pubblico totalmente privi di ogni minima cura. Roma fa davvero una brutta impressione, sotto il profilo della pulizia e del decoro urbano. Non c’è niente di esagerato in tutto quel che si legge o si ascolta sui media. Gli altri pensino pure ciò che vogliono, ma una città messa così male e con i ben noti problemi di cui soffre, soltanto un’occasione come le Olimpiadi avrebbe potuto cambiarla davvero.

Ore 11.28 – Auditorium Parco della Musica

Auditorium Roma

Giornata umida, ma mite. A tratti cade quella pioggerella fastidiosa e incessante tipica dell’inverno romano. È tradizione beccare l’acqua almeno in una delle giornate di Sei Nazioni: infatti è successo anche quest’anno, anche se di solito l’ultima partita di marzo coincide nella maggior parte dei casi con uno splendido sole primaverile. Per la partita c’è ancora tempo e me la prendo comoda, rivivendo nella mia mente tutte le volte che siamo stati qui in passato.

Dal Villaggio Olimpico attraverso un paio di vie per ritrovarmi all’Auditorium Parco della Musica: finalmente posso rifarmi gli occhi, dopo la sporcizia del quartiere che lo circonda. Quando sono in zona, ne approfitto sempre per una capatina alla grande libreria Note Book, che ha una nutrita sezione di titoli sportivi, e poi perché in generale le architetture moderne mi piacciono, qui vicino c’è pure il MAXXI di Zaha Hadid. Così come apprezzo molto il viavai di gente ben vestita, che va di qua e di là con libri o strumenti musicali sotto braccio, o siede nelle caffetterie, tra un evento e l’altro. Un’oasi di cultura e tranquillità.

Credo che il rugby si sposi bene con la cultura: visto che non c’è il giro milionario del calcio e neppure del basket, moltissimi giocatori sono anche laureati o studenti universitari (parliamo di medicina, ingegneria, insomma non solo “scienze delle merendine”) che pensano al proprio futuro anche fuori dal campo. Attraverso l’arena all’aperto che si apre tra i tre “scarabei” di Renzo Piano e salgo le scale fino alla terrazza in alto, perché voglio dare un’occhiata, da lontano, alla vecchia “meta” delle nostre prime sortite al Sei Nazioni.

Ore 11.35 – Guardando il Flaminio

Roma Flaminio

Roma sarebbe una splendida città di sport, se fossimo negli anni ’60. Perché gli impianti sono rimasti quelli, più o meno. Belli e suggestivi quanto vuoi, ma roba di sessant’anni fa, o più. Oggi ci fai poco o nulla. Gran parte delle grandi città europee e mondiali hanno rinnovato le loro strutture. A Roma, poi, la situazione è andata peggiorando. Basti pensare alla Città dello Sport di Calatrava, giù a Tor Vergata, una delle incompiute più assurde. Intanto lo Stadio Flaminio, che come il vicino palazzetto dello sport di Viale Tiziano è scaturito dal genio di Pierluigi Nervi, giace lì abbandonato, da quando il rugby azzurro ha scelto di passare all’Olimpico come casa delle partite interne dell’Italia.

Il Flaminio è preda del degrado più nero. Regno di graffitari e senzatetto. Tempo fa ci hanno trovato persino il cadavere di un uomo. Sui giornali si parla blandamente di idee per il recupero, ma ogni discorso concreto sembra improbabile: c’è la netta impressione che lo stadio in cui l’Italia debuttò al Sei Nazioni nel 2000 battendo la Scozia (toh, la Scozia…) con un immenso Diego Dominguez, sia destinato a rimanere ancora a lungo in queste tristissime condizioni.

Ora l’unico “cadavere” qui presente è proprio quello del Flaminio. Lo osservo dalla terrazza dell’Auditorium e sento ancora il boato che salutò l’incredibile vittoria in rimonta nel Sei Nazioni 2011 contro la Francia, quando Mirco Bergamasco segnò tutto ciò che c’era da segnare e vincemmo 22-21. L’immenso calore di un piccolo stadio che si infiammava, il grido della folla che percorreva le gradinate, il fremito metallico delle tribune aggiuntive che venivano installate per contenere un pubblico in costante crescita: il Flaminio rimarrà lo stadio dei ricordi. E, di nuovo, non posso fare a meno di ripensare all’occasione persa di ospitare le Olimpiadi. Roba da matti. La pioggerella si fa insistente, torno indietro.

Ore 12.04 – Ponte della Musica e Foro Italico

È il momento di raggiungere lo Stadio Olimpico e d’un tratto smette di piovere. Dall’Auditorium attraverso Viale Tiziano e Via Flaminia e percorro tutta Via Guido Reni fino al Ponte della Musica, altra bella struttura, anch’essa purtroppo finita preda dell’incuria e del vandalismo. Ma basta, adesso, parlare di tutte le cose che non vanno a Roma: siamo qui per il rugby. Odo da lontano l’inconfondibile suono di cornamuse: il panorama inizia a essere punteggiato di gruppi di scozzesi, molti dei quali in kilt, che affluiscono tra una birra e l’altra in direzione stadio.

Dalle highlands ne sono scesi un’infinità: non così tanti come gli inglesi il mese scorso, ma sempre in gran numero. La nazionale del Cardo sta vivendo forse il miglior momento della sua storia recente e c’è un popolo intero al suo seguito. Per Roma il Sei Nazioni significa accogliere quindici-ventimila sostenitori ospiti a ogni partita: per loro è un bel weekend “al caldo”, oltre che occasione di cultura, tanto che c’è pure l’iniziativa dei musei gratis a chi ha il biglietto del match. Cosa vuole, la Georgia? Sostituirsi all’Italia nel Sei Nazioni? E chi ci va, a Tbilisi?

Mi mimetizzo nella moltitudine di bandiere blu con la croce di Sant’Andrea bianca, o con il leone rosso in campo giallo, l’antico vessillo dei re scozzesi. All’ingresso del Foro Italico, dalla parte degli impianti per il tennis, trovo una lunga coda per i controlli di sicurezza: la gente è tanta, i varchi stretti, le operazioni si rallentano, non so se per inefficienza organizzativa o perché deve funzionare proprio così. E allora, in queste situazioni, mi convinco ogni volta che la mia “fissa” di arrivare in largo anticipo non è poi così immotivata.

Mi armo di pazienza ma, una volta dentro l’area stadio, decido di saltare l’abituale giro tra gli stand del Terzo Tempo Village per dirigermi subito all’ingresso dei distinti sud-est, il settore in lo scorso autunno ho acquistato l’abbonamento. Tra l’altro, va detto che nel corso degli anni l’interesse del “villaggio” è diminuito, le iniziative coinvolgono sempre meno il pubblico e di gadget se ne vedono pochi. Siamo al volantinaggio o poco più. E’ tanto che non riesco a rimediare una t-shirt omaggio, quelle che ho sono ormai vecchie e scolorite… Ancora una fila per i controlli e poi eccomi dentro.

Ore 12.58 – Stadio Olimpico

Sei Nazioni

Alla fine, manca appena mezz’ora all’inizio di Italia-Scozia. Raggiungo il mio posto, più o meno a metà altezza. L’Olimpico è sempre immenso, a guardarlo. D’altronde è uno stadio pensato per l’atletica, il rettangolo verde è lontano, la mia visuale è comunque buona. Quasi di fronte a me la tribuna stampa: il sogno, un giorno spero non troppo lontano, è sedermi là, per questo o per altri eventi sportivi, in questa o in qualsiasi altra città importante.

Fuori dello stadio c’è ancora un’orda di gente, che pian piano entrerà. Sul campo le squadre stanno ultimando gli esercizi di riscaldamento. Do uno sguardo al programma ufficiale che ho acquistato prima di entrare, colleziono tutti quelli delle partite a cui sono presente. La musica è a tutto volume e lo speaker, fastidiosissimo come sempre, non sta zitto un attimo. Quando sono stato a Dublino, due anni fa, era tutto più silenzioso: ma perché noi italiani dobbiamo essere sempre “casinari”?

Man mano che l’orologio scorre e le tribune si riempiono – alla fine saremo poco più di 60 mila, con una bella fetta di scozzesi – le varie fasi di avvicinamento al calcio d’inizio si ripetono come un antico rituale. Gli inni nazionali sono tra i meglio riusciti che io ricordi. La Scozia ha la propria banda di cornamuse, che esegue l’emozionante Flower of Scotland, uno dei migliori inni al mondo, quello in cui gridano a gran voce di mandare a casa gli inglesi: le migliaia di sostenitori accompagnano l’esecuzione con l’ennesima dimostrazione di canto corale da stadio di cui sono capaci i britannici; Il Canto degli Italiani di Mameli è invece affidato alla fanfara dei Carabinieri, e per fortuna stavolta quelli dell’organizzazione si ricordano di mandare l’audio in diffusione, che già andare a tempo è difficile. Quindi, è il momento di cominciare.

Ore 13.30 – La partita

Per la cronaca dettagliata vi rimando a Google e ai giornali sportivi. Mi limito a dire che è stata sicuramente una delle migliori partite dell’Italia degli ultimi anni. Se non fosse per il fatto che abbiamo perso, di nuovo. Appena due punti di scarto, 29-27. Un match combattuto, incerto, a tratti esaltante. Risolto dal solito, maledetto calcio di punizione che pure in passato abbiamo concesso alla Scozia nei minuti conclusivi. E mai una volta che lo sbagliano. Stavolta è Greig Laidlaw a spedire l’ovale in mezzo ai pali, vanificando il vantaggio messo a segno poco prima da Tommaso Allan, il mediano di apertura azzurro che tra l’altro è cresciuto proprio in Scozia e che, autore di due delle tre mete dell’Italia (l’altra è dell’ottimo estremo Minozzi), viene nominato man of the match. Magra consolazione.

Ancora un finale beffardo di fronte agli scozzesi, che forse non rende giustizia al gioco espresso dagli azzurri, in vantaggio per circa 70 minuti. Ma il rugby è così, soprattutto se sei l’Italia, la quale, è bene ricordarlo, è sempre l’ultima invitata al ballo delle grandi potenze europee del rugby, uno sport che hanno inventato loro, non noi. E in cui la tradizione ha un valore fortissimo.

E così, dopo aver toccato il massimo vantaggio di 24-12 a inizio secondo tempo e aver a tratti dominato il possesso, un calo di intensità e qualche errore difensivo hanno consentito alla Scozia di rimontare e vincere. Al di là del risultato, tuttavia il bello è stato aver visto un’Italia non cedere di schianto come successo troppe volte, ma reggere il confronto con una delle nazionali più in forma del momento, giocare alla mano, e insomma, a parte qualche errore di troppo (ma meno del solito) disputare una partita di rugby.

Ore 15.10 – Un altro Sei Nazioni è finito

La delusione è palpabile a fine partita, ma a trionfare è sempre lo spirito del rugby: che sia vittoria o sconfitta, ogni volta è una festa. È incredibile quanto questo sport riesca a unire e a non dividere, sia in campo sia sugli spalti. E continuo a considerare la presenza dell’Italia nel Sei Nazioni un grande privilegio per tutto il nostro sport, perché non dimentichiamo che le nostre avversarie giocano a rugby da centocinquant’anni e oltre, cioè quando da noi più o meno veniva fatta l’unità d’Italia…

Esco dallo stadio ancora una volta con la speranza che l’anno prossimo le cose andranno meglio. C’è da dire che, dopo aver visto gli Azzurri giocare così, di fronte a una squadra che un anno fa ci aveva battuto 29-0 (sì, a zero), è una speranza un po’ più concreta. Anche io mi unisco a tutti coloro che danno fiducia a Conor O’Shea, al lavoro dietro le quinte di Stephen Aboud e al progetto che questo staff vuole realizzare con il rugby italiano. Confidando che la Federazione Italiana Rugby sostenga il tutto in modo serio e lungimirante, a differenza di quanto ha fatto nel recente passato.

Vado via rapidamente dallo stadio e vedo che il palco del Terzo Tempo Village è sempre più snobbato dal pubblico: forse è vero, sarà pure una festa, il rugby, ma ormai più di qualcuno vuole anche le vittorie. Lascio il Foro Italico, attraverso il Ponte della Musica e mi avvio di nuovo verso il Villaggio Olimpico, a recuperare l’auto.

Intanto fa capolino un po’ di sole. Man mano che mi allontano, la marea umana degli appassionati di rugby si dirada. Quando risalgo in macchina, sono ormai solo, lontano dall’Olimpico, dal Sei Nazioni, dal rugby. Per un attimo nella mia mente si fa strada la solita considerazione post-sconfitta: ma chi me lo fa fare? So che il cattivo pensiero durerà solo un istante: la passione per lo sport avrà la meglio, non ho dubbi. E inizio così a pensare al prossimo Sei Nazioni, confidando che sarà il migliore di sempre. Quello che non dimenticherò mai.

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