“Parigi 1999. Vent’anni dopo”, la recensione

Ci sono ricordi che se ne stanno a lungo accantonati da qualche parte. Ci siamo goduti quei momenti, li abbiamo messi lì come se non dovessero mai appassire e la vita è andata avanti.

Poi, quando ci accorgiamo che il tempo è passato e che tutto intorno a noi è cambiato, riemergono violenti con quel carico misto tra ammirazione, sorriso e nostalgia. La vittoria dell’Italia agli Europei di basket 1999 è uno di questi ricordi. E sta diventando, per la pallacanestro, ciò che l’Italia campione del mondo nel 1982 è stato per il calcio. Démodé quanto vuoi, sconosciuta ai più giovani, ma sempre con quel mitico e intoccabile alone di esempio da seguire.

Era un mondo diverso, vent’anni fa. Era un basket diverso. Tutto viaggia a velocità supersoniche e gli anni ’90 sono già vintage. Anni già globalizzati, i Nineties, ma non troppo. Già frenetici, ma non così tanto da farti sfuggire le differenze con oggi. Le divise, il pallone, il campo: tutto così diverso, lontano, sorpassato. EuroBasket 1999 è diventato uno di quei momenti iconici di un decennio. Quelle storie che ormai fanno parte del passato, ma che vorresti rivivere con tutto il trasporto possibile.

1999: Italia campione d’Europa di basket

Parigi 1999. Vent’anni dopo è un documentario di quasi un’ora che celebra il ventennale dell’oro europeo dell’Italbasket. È andato in onda su Sky Sport a partire dal 23 luglio 2019. Reca la firma di Alessandro Mamoli, giornalista di Sky Sport, e la regia di Simone Raso, fotografo e videomaker.

Le immagini di quella cavalcata in terra francese, accompagnate dalle voci di Flavio Tranquillo, Paola Ellisse, Dan Peterson, Pietro Colnago, allora tutti in forza a Tele+, si alternano alle testimonianze di chi ha vissuto in prima persona quell’estate memorabile per il basket azzurro. Giocatori, allenatori, dirigenti, giornalisti: Alessandro Abbio, Davide Bonora, Gianluca Basile, Andrea Meneghin, Carlton Myers, Giacomo Galanda, Alessandro De Pol, Marcelo Damiao, Denis Marconato, Roberto Chiacig, Gregor Fucka, Michele Mian, i coach Bogdan Tanjevic e Marco Crespi, i giornalisti al seguito Carlo Annese, Luca Chiabotti, Flavio Vanetti.

Voci che raccontano uno dei più importanti successi della Nazionale italiana di basket, rievocando episodi rimasti marchiati a fuoco nella storia azzurra: Myers che si incaponisce a voler vincere da solo la partita inaugurale, clamorosamente persa con la Croazia di Kukoc, la conseguente lite negli spogliatoi “origliata” dai giornalisti e poi chiarita in un determinante incontro tra Tanjevic e la stampa, la progressiva cementificazione del gruppo attraverso le prime vittorie, l’epica schiacciata di Meneghin nel canestro della Russia, la battaglia con la Jugoslavia. E, durante la finale con la Spagna, Abbio che travolge Tanjevic nel recuperare un pallone, propiziando l’affondata a canestro di Chiacig che sancisce di fatto il successo italiano.

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La squadra dell’amore

Il documentario si apre con un’introduzione che alterna momenti della vita attuale degli eroi del ’99 con i flashback più significativi di vent’anni fa. Quindi, parte la narrazione, con la nomina di Bogdan Tanjevic a commissario tecnico dopo la fine della gestione Ettore Messina e la successiva, dolorosa esclusione di Gianmarco Pozzecco (reduce da un clamoroso scudetto vinto a Varese da signore assoluto) a poche settimane dalla partenza per la Francia.

Ed ecco allora il primo turno degli Europei, ad Antibes, con la Croazia che ci rimonta, la Bosnia che rischia di farci fuori e la sofferta vittoria sulla Turchia. A seguire il fieno in cascina messo a Le Mans contro la Germania di un novellino Nowitzki e la Repubblica Ceca, prima di sbattere contro Arvydas Sabonis e la Lituania. Infine, a Parigi Bercy, la qualificazione olimpica sontuosamente strappata alla Russia, in semifinale la grande impresa contro la Jugoslavia dei vari Danilovic, Bodiroga, Divac (con Obradovic in panchina) e la finale tutta in discesa contro la Spagna che allora non aveva giocatori NBA.

C’era qualcosa di speciale, nell’Italia di Tanjevic. Qualcosa che probabilmente, se non a tratti, non si è più visto nelle successive nazionali. Nemmeno in quella di Recalcati, che tra 2003 e 2004 realizzò imprese incredibili. Ma quella era una squadra che già combatteva contro i propri limiti, che già doveva fare i conti con avversari tremendamente superiori. L’Italia del ’99 no: era una squadra matura, forte, unita da una fortissima voglia di vincere, di andare alle Olimpiadi, di raggiungere gli obiettivi prefissati, in un contesto in cui poteva realmente giocarsela con tutti.

Quei ragazzi avrebbero giocato anche gratis, anche infortunati. Erano espressione di un campionato dove venivano a giocare i migliori slavi e uno come Abbio doveva battagliare ogni giorno in allenamento con Danilovic. L’ondata dei giocatori europei NBA non era ancora arrivata: era un basket diverso dagli anni ’80, ma non ancora diventato quello che sarebbe stato dal 2000 in poi. Un basket in cui superare la Spagna in finale era quasi una formalità. Che divario pazzesco rispetto a pochi anni più tardi…

Nell’Italia campione d’Europa di basket, infine, c’era la cosa più importante di tutte: l’amore. L’amore in senso lato. L’amore per il basket, per ciò che si era e per il traguardo a cui si voleva arrivare. L’amore per il gruppo oltre ogni individualismo. C’era una squadra che inseguiva un sogno, lo proteggeva, lo avvicinava e lo afferrava senza permettere più a nessuno di portarglielo via. Come Myers con il pallone della vittoria dopo la sirena finale.

In un mondo in cui le cose, e forse anche gli amori, scivolano via come una storia di Instagram, è bello ricordare la Nazionale del 1999 come qualcosa di vero, di grande, di forte, di unico. Come l’abbraccio tra Andrea Meneghin e papà Dino, la storia nella storia di un campionato europeo che sarà ricordato per sempre dai veri appassionati di basket.

Per ulteriori informazioni sul documentario Parigi 1999. Vent’anni dopo: www.ventannidopo.com.

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