ESPN 30 for 30, “Rodman: for better or worse”: la recensione

Ci sono differenti modi con i quali ci approcciamo alla carriera di Dennis Rodman, guardandola in inevitabile retrospettiva alla luce dell’oggi.

Si tratta di uno dei più grandi rimbalzisti della storia del gioco, capace di rivoluzionare l’aspetto difensivo e “sporco” della pallacanestro, vincendo le partite tralasciando completamente la fase realizzativa. Un uomo venuto dal nulla, caratterizzato in campo da una voglia di rivincita unica: per sommi capi conosciamo tutti il suo passato, fatto di un padre assente, una madre severa, il lavoro presso l’aeroporto di Dallas, le notti passate in strada.

Contemporaneamente lo ricordiamo vestito da sposa per presentare la sua biografia Bad as I wanna be, conosciamo il suo lato “social” prima che i social esistessero, i capelli colorati, la relazione con Madonna, l’investitura a icona pop (ma anche un po’ glam con sfumature grunge) con la quale è divenuto uomo simbolo dei Chicago Bulls del secondo three-peat. I Beatles del basket, più o meno. Tra gli ’80 ed i ’90 vince 5 titoli – con i Bad Boys di Detroit e quei Bulls – tra flagrant fouls ed espulsioni, testate agli arbitri e calci ai cameraman.

Poi lo ritroviamo in lacrime sul palco del Naismith Memorial di Springfield, per il suo ingresso nella Hall of Fame, mentre borbotta scuse alla madre, ai figli, alla momentanea moglie. Vuole essere un uomo migliore, Dennis, un padre più presente. Ma poco tempo dopo appare ubriaco a difendere l’amico Kim Jong-un, dittatore della Corea del Nord che visita a più riprese, prendendosi anche i meriti per quell’armistizio avvenuto con l’altro plenipotenziario occidentale Donald Trump, auto-proponendosi al Nobel per la Pace.

Insomma, Dennis Rodman lo puoi ammirare per quello che ha fatto in campo, da vincente per antonomasia. Può farti sorridere per le evoluzioni bizzarre del suo personaggio, con le sue comparsate sopra le righe, gli eccessi notturni. Addirittura puoi commuoverti guardando alla sua interiorità neanche troppo invisibile, come accade ad Isiah Thomas nel documentario Rodman: for better of worse, rilasciato per la serie 30 for 30 di ESPN e diretto da Todd Kapostasy.

Si tratta di un lavoro che fa centro, impreziosito dalla supervisione e dalla presenza di The Worm in persona, che restituisce tutte le contraddizioni conviventi in questo personaggio destinato a far discutere, e che soprattutto non contempla il lieto fine. Perché non esiste questo concetto nella vita di Dennis, almeno fino ad oggi, dove comunque si dichiara orgogliosamente sobrio da un numero ragguardevole di settimane, contemporanea ammissione di una triste dipendenza che ha sacrificato una parte ampia del suo presente.

Quello in cui la figlia maggiore Alexis lo guarda con disprezzo, lasciata sola da un genitore che non conosce neanche sua nipote, “grande distrazione” in campo ed eterna delusione nel passato recente, quantomeno. Con tutto quel quantitativo di piercing e tatuaggi che ne accompagna gli outfit bizzarri, con immancabili occhiali da sole che nascondono quello sguardo amaro, spaesato, a volte spaventato. Due occhi che non sono mai cambiati nella loro profondità, osservandoli nelle poche foto di infanzia a disposizione.
Quelle che ci propone una madre triste, sola, invecchiata. Che si sente abbandonata da un figlio che gli ha restituito molto, ma che non vede da tempo.

Questo docufilm senza peli sulla lingua ripercorre tutte le fasi della carriera del Rodman giocatore e del personaggio pubblico, lasciando emergere particolari che stupiscono, come la totale perdita di realtà da parte del nostro durante gli anni di Chicago, vittima di una popolarità crescente. Le notti passate a bere, terminate con le luci dell’alba in letti riempiti sempre da donne diverse, e quelle sveglie troppo presto nel mattino mai posticipate, per onorare i suoi impegni in allenamento o in campo. Mantenendo una freschezza fisica impossibile da giustificare, e una concentrazione in campo capace di restituire quasi sempre giocate decisive a quei Bulls che avevano creduto in lui.

Salvo poi riprendere con un circo fatto di alcol e prodezze pubbliche già dal dopo gara, “una richiesta di aiuto” per un uomo mai cresciuto, che nella vita ha sempre e solo sognato di essere accettato dagli altri, facendo di tutto per riuscirci. È questo che racconta l’ex compagno Thomas, e che fa riflettere alla luce delle ultime evoluzioni del Verme, che oggi è un uomo più volte sconfitto dalla vita, incapace di riemergere da quella che tutto sommato è una profonda depressione che flirta da anni con lo squilibrio mentale.

Non c’è un lieto fine nell’opera di Todd Kapostasy, tanto meno voglia di sorridere o redimere il personaggio, anzi la sensazione spaesata che resta alla sua conclusione apre addirittura qualche piccolo interrogativo personale.
Forse quando acquistavamo quella canotta con il numero 91, esaltando le gesta di quel bizzarro provocatore, eravamo complici di quel sistema che ha utilizzato e sfruttato per anni un ragazzo timido, insicuro, che non è riuscito a trovare un posto in cui sentirsi bene in questo mondo.

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