La Ivy League nel basket: storia e passione

La Ivy League nel basket dei college, in generale, non riceve particolari attenzioni, in quanto raramente propone squadre forti o sforna futuri atleti professionisti.

Così, persino la decisione di cancellare la stagione 2020-21 (in campo sia maschile che femminile) a causa del perdurare della pandemia, non ha smosso più di tanto gli animi.

Una delle 32 conference della NCAA Division I, la Ivy League è nota per essere composta da otto università private ed esclusive, tra le più prestigiose degli Stati Uniti e del mondo. Atenei di assoluta eccellenza, il cui principale scopo è formare manager, avvocati, medici, politici e non stelle dello sport. Per questo tali college sono gli unici in prima divisione che non assegnano borse di studio sportive.

Tuttavia, il fatto di ottenere scarsa copertura dai media e di non essere la meta ideale per chi vuole sfondare in NBA ha spesso nascosto la profonda passione della Ivy League nel basket. Come raccontano Kathy Orton e John Feinstein nel libro Outside the limelight. Basketball in The Ivy League, la pallacanestro qui ha sempre potuto contare su un ambiente genuino e caloroso, animato da sincero amore per il gioco. E con ragazzi che magari non sono super atleti, ma sicuramente persone e giocatori intelligenti e dal background variegato.

Inoltre, la Ivy League, a lungo, non ha avuto il torneo di conference, che esiste soltanto dal 2017 (oggi detto Ivy Madness). Nel college basketball è il torneo di conference, e non la regular season, che qualifica al Torneo NCAA. Quindi, per anni, gli scontri diretti in regular season erano decisivi per conquistare l’unico posto certo per la March Madness. E il fervore agonistico non è mai mancato.

Ivy League: chi ne fa parte

ivy league nel basket

La Ivy League come conference sportiva esiste dal 1954. Delle prime competizioni si ha notizia a partire da un paio d’anni più tardi. È l’erede della EIBL (Eastern Intercollegiate Basketball League), i cui annuari si spingono all’indietro nel tempo fino al 1902.

Gli atenei che ne fanno parte, ovviamente, sono molto più antichi. La loro storia è parallela a quella degli Stati Uniti d’America e si trovano tutti nel nord-est, nell’area che costituisce il nucleo storico dell’Unione. Sette di essi risalgono al periodo coloniale e l’unico più recente, Cornell, all’epoca della Guerra Civile.

La più antica delle otto università della Ivy League è Harvard, fondata nel 1636 a Cambridge, Massachusetts, alle porte di Boston. Crimson, cioè il colore cremisi delle uniformi, è il nickname delle sue squadre. Quindi ecco Yale, a New Haven (Connecticut), risalente al 1702, con i Bulldogs che vantano la squadra di basket più antica (1896); e Pennsylvania, abbreviata in Penn, fondata nel 1740, i cui atleti portano il nome di Quakers. Del 1746 è l’istituzione di Princeton, nell’omonima città del New Jersey (Tigers) e, a Providence in Rhode Island, della Brown, home of the Bears.

C’è quindi la Columbia, il cui campus si trova a New York City, nella zona di West Harlem: l’università le cui squadre si chiamano Lions risale al 1764. Quindici anni più tardi, nel 1769, ad Hanover nel New Hampshire venne fondato il Dartmouth College. Infine, nel 1865, la più “giovane” delle otto, Cornell, a Ithaca, nello Stato di New York. Gli atleti di queste ultime due università portano il nome rispettivamente di Big Green e Big Red.

Ivy League: perché si chiama così

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Il termine Ivy League, secondo alcune tesi, compare a partire dagli anni ’30 del Novecento. Ufficialmente deriva dal Council of Ivy Group Presidents, vale a dire il consiglio dei presidenti delle otto università. Che sono note anche come The Ancient Eight, “le antiche otto”.

Ivy, in inglese, significa “edera“. Un’immagine molto comune di questi campus stracolmi di storia e tradizione è data infatti dalla presenza di caratteristici edifici in mattoncini rossi, sui cui muri è solito crescere il rampicante che tutti conosciamo. Inoltre, piantare l’edera era una cerimonia abituale effettuata nell’Ottocento in occasione del Class Day, il giorno di primavera in cui i membri della classe di laurea celebravano il completamento dei corsi.

Il primo uso del termine Ivy in riferimento a una lega sportiva tra questi college, la cui competizione reciproca era in ogni caso molto sentita e radicata, lo si deve probabilmente al giornalista Stanley Woodward, che nel 1933 parlò di Ivy colleges. Più propriamente, l’espressione Ivy League sarebbe stata coniata nel 1935 da Alan Gould della Associated Press.

La Ivy League nel basket

L’agonismo tra le università della Ivy League nel basket non è mai mancato, così come forti rivalità sviluppatesi nel corso degli anni, tra cui spicca quella tra Penn e Princeton di cui parliamo tra poco.

Ovviamente, non solo per assenza di grandi talenti cestistici ma anche per una mentalità indubbiamente tradizionalista, la Ivy League non si è mai distinta come una fucina di campioni. Addirittura, nel 1971 è stata l’ultima conference a introdurre la possibilità per le matricole di giocare in prima squadra. Inoltre, i campionati femminili sono presenti solo dal 1974.

In ogni caso, ad oggi, nell’arco di settanta anni, sono stati 98 i giocatori provenienti dalla Ivy League scelti al Draft. Di essi, 45 sono riusciti a mettere piede in NBA. Il più famoso è Jeremy Lin, uscito da Harvard nel 2010, dove ha trascorso quattro anni nella squadra allenata da coach Tony Amaker. La guardia di origini orientali, nato in California, ha conquistato notorietà globale con la Linsanity, il periodo di circa due mesi in cui, nel 2012, ebbe un’esplosione con i New York Knicks. E nel 2019 ha vinto, da comprimario, il titolo NBA con i Toronto Raptors, dopo aver vestito le maglie di Rockets, Lakers, Hornets, Nets, Hawks.

Princeton vs Penn

I programmi più rinomati della Ivy League nel basket sono Princeton e Penn, rispettivamente con 25 e 24 apparizioni al Torneo NCAA.

Princeton, in particolare, ha dato il nome al sistema offensivo messo a punto da coach Pete Carril, che ha guidato i Tigers dal 1967 al 1996 prima di diventare assistente di Rick Adelman ai Sacramento Kings. Qui dimostrò che l’attacco Princeton poteva funzionare anche in NBA. Tra gli alumni illustri della palla a spicchi ci sono Geoff Petrie, futuro general manager proprio di quei Kings Stellari, e soprattutto Bill Bradley, che dopo un passaggio all’Olimpia Milano divenne bandiera dei New York Knicks (vincendo i titoli NBA 1970 e 1973) e poi senatore democratico. C’era lui nei Tigers che raggiunsero la Final Four NCAA nel 1965. Brevi trascorsi milanesi anche per un prodotto più recente, Steve Goodrich, uscito da Princeton nel 1998.

Penn gioca a Philadelphia nello storico impianto di The Palestra. Anche i Quakers, nella loro storia, sono riusciti una sola volta ad arrivare alla Final Four, nel 1979. Allenatore di quella squadra era Bob Weinhauer e miglior giocatore Tony Price, unico del roster ad approdare in NBA, ai San Diego Clippers. Penn chiuse al quarto posto, sconfitta prima dalla Michigan State di Magic Johnson e poi da DePaul. Ira Bowman, Corky Calhoun, Matt Maloney e Jerome Allen (visto in Italia e oggi assistente ai Boston Celtics) sono gli altri migliori prodotti usciti da Pennsylvania. Tra gli allenatori Chuck Daly, futuro coach dei Bad Boys dei Detroit Pistons e del Dream Team del 1992, che ha guidato i Quakers dal 1971 al 1977.

Le altre università

Tolte Penn e Princeton, per le altre università della Ivy League nel basket ci sono le briciole, in termini di momenti di gloria e giocatori di rilievo. Dartmouth, l’ateneo più piccolo degli otto, ha dato alla NBA Rudy LaRusso, il cui anno da senior (1959) coincide con l’ultima delle sette apparizioni dei Big Green al Torneo NCAA, dove persero la finale per il titolo nel 1942 e nel 1944.

Columbia, che non si fa vedere alla March Madness dal 1968, tra i protagonisti di quell’anno annovera Jim McMillian, che in seguito ha vestito le divise di Los Angeles Lakers (campioni NBA nel 1972), Buffalo Braves, New York Knicks, Portland Trail Blazers e Virtus Bologna. Nel 1957 Chet Forte fu preferito a Wilt Chamberlain nel primo quintetto All-American. In seguito lasciò il basket per intraprendere una carriera radiofonica e televisiva. Recentemente ha giocato con i Lions l’italiano Gabriele Stefanini, dal 2017 al 2020.

Cinque le apparizioni al Torneo NCAA per Yale, due delle quali nel 2016 e nel 2019. Un programma in crescita, quello del college di New Haven. Miye Oni, scelto al Draft NBA 2019 dai Golden State Warriors e girato agli Utah Jazz, è il primo bulldog scelto dai tempi di Chris Dudley (1987), l’alumnus di basket più conosciuto di Yale, ex Cavaliers, Nets, Blazers, Knicks e Suns e in seguito politico repubblicano.

Per la Brown solo due viaggi al “grande ballo”: 1939 e 1986. Subito eliminata in entrambi i casi. Dal 1992 al 1996 ha giocato con i Bears l’attuale coach degli Houston Rockets, Stephen Silas. Cornell, invece, è la alma mater di Bryan Colangelo, futuro executive NBA con Phoenix Suns, Toronto Raptors e Philadelphia Sixers. Ci ha giocato come guardia negli anni ’80. Tra i risultati di rilievo dei Big Red, la qualificazione alle Sweet Sixteen nel 2010 con coach Steve Donahue (oggi a Penn).

Foto in alto: YaleDailyNews.com / William McCormack

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