Mondiali di basket 1998: storia di un’edizione particolare

Estate 1998. Torrida. Fatidica. Il 12 luglio la Francia si prende, in casa, la sua prima Coppa del Mondo di calcio. Nel giro di meno di un mese, ad Atene, sta per cambiare anche la storia di altri Mondiali: quelli di basket.

Ci sono infatti nell’aria segnali di forte discontinuità rispetto al percorso che la competizione iridata aveva intrapreso a inizio decennio. Cioè da quando il Dream Team statunitense aveva fatto la sua irruzione sulla scena della pallacanestro planetaria.

Ci si avvia verso il nuovo millennio nel segno del cambiamento: alla tredicesima edizione dei Mondiali si affacciano squadre figlie della storia, pronte a dare l’assalto al trono e a rivendicare il proprio posto in un mondo profondamente cambiato rispetto a pochi anni prima. E c’è pure l’Italia, otto anni dopo l’ultima volta.

L’antefatto: niente NBA

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Il “Dream Team 2” trionfatore ai Mondiali 1994 / Foto: Usab.com.

Un passo indietro. 14 giugno 1998, Salt Lake City, gara 6 delle finali NBA. The Shot di Michael Jordan gela gli Utah Jazz e consegna il sesto e ultimo titolo ai suoi Chicago Bulls. Qualche mese dopo MJ annuncia il ritiro, in concomitanza con lo smantellamento della squadra di Phil Jackson. Forse mai come nessun’altra quell’azione di gioco sembra segnare la fine di un’epoca, di una dinastia. Tanto più che in estate comincia il lockout per il mancato accordo sul contratto collettivo dei giocatori. Con una conseguenza grande e una piccola. Quella grande è il ritardo della stagione successiva, che inizierà a febbraio 1999 e durerà solo 50 partite. Quella piccola, che poi tanto piccola non è, è la rinuncia dei giocatori NBA a partecipare ai Mondiali con la nazionale a stelle e strisce. Il discorso si estende anche a quelli che militano in altre nazionali, seppur in numero nettamente inferiore rispetto a oggi.

Ulteriore passo indietro. 1994, Mondiali di Toronto. Gli Stati Uniti battono la Russia e conquistano la medaglia d’oro. È il Dream Team 2, seconda edizione dell’originale Dream Team di Barcellona ’92: confermati solo Charles Barkley e John Stockton, dentro gente come Shaquille O’Neal, Alonzo Mourning, Shawn Kemp, Reggie Miller, Gary Payton, Larry Johnson. Coach Don Nelson. Risultato: un po’ di sofferenza iniziale con la Spagna, e poi sono -30 di media per tutti. Stessa storia due anni dopo, ai Giochi di Atlanta, con il Dream Team 3. Nel 1989, oltre a quello di Berlino, era caduto anche il muro del divieto per i professionisti NBA di giocare con le rappresentative nazionali FIBA. Se da un lato esplode nel basket una spettacolare globalizzazione, dall’altro il sapore della competizione viene sacrificato. Perché con quegli USA lì, inutile girarci intorno, si gioca per il secondo posto. Ora però, anno ’98, il lockout NBA cancella il volo del Dream Team 4 su cui sarebbero dovuti salire Tim Duncan, Gary Payton, Chris Webber, Kevin Garnett, Grant Hill, Tim Hardaway, Glen Rice, Tom Gugliotta, Vin Baker, Christian Laettner, Allan Houston, Terrell Brandon.

Il terremoto è notevole. Da un lato, la disperazione della FIBA e della Grecia, che contavano su un clamoroso ritorno di marketing. Dall’altro, le possibilità fino a poco prima impensabili che si aprono per le altre compagini: non si gioca più per il secondo posto, una nazionale diversa dagli Stati Uniti può tornare ad essere campione del mondo.

The Dirty Dozen

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Rudy Tomjanovich, il coach della “Dirty Dozen” / Foto: NBA.com.

USA Basketball, l’organo che sovrintende alle rappresentative nazionali statunitensi, decide di mantenere un solo aggancio con il mondo NBA: l’allenatore. È Rudy Tomjanovich, che pochi anni prima, nel 1994 e 1995, sfruttando gli anni in cui Michael Jordan si era ritirato per giocare a baseball, aveva portato gli Houston Rockets a vincere due titoli consecutivi. Rudy T ha l’aria un po’ orgogliosa, un po’ malinconica del sopravvissuto: perché sopravvissuto lo è davvero, da quando da giocatore, nel 1977, rischiò la morte per un terrificante pugno in faccia ricevuto da un avversario, Kermit Washington dei Lakers. Tomjanovich è quindi ritenuto la persona tecnicamente e caratterialmente più adatta per guidare un gruppo improbabile chiamato a partire per la Grecia.

Viene infatti assemblata in fretta e furia una formazione di giocatori americani praticamente sconosciuti ai non addetti ai lavori: professionisti nei campionati europei, nella CBA – gloriosa lega minore USA che sarebbe scomparsa qualche anno più tardi – e un paio di universitari a completare l’opera. Elementi sicuramente validi, diversi dei quali passati anche dall’Italia e di grande esperienza, ma a una distanza cosmica dall’appeal che avrebbero avuto le star NBA. In patria, soltanto ESPN 2 accetta di trasmettere le partite della nazionale, e dal secondo turno, per giunta. La prima partita, al Peace and Friendship Stadium del Pireo, attira poco più di quattromila spettatori in un palazzo che ne contiene oltre il triplo.

Li soprannominano The Dirty Dozen, la sporca dozzina. Come il vecchio film di guerra, in cui un gruppo di galeotti è messo insieme alla svelta e addestrato per compiere una missione suicida dietro le linee nemiche. Perché di questo si tratta: gli Stati Uniti passano da una situazione di trionfo scontato ad essere una squadra come le altre, che dovrà sudarsi ogni vittoria.

Nel roster ci sono Michael Hawkins, play dell’Olympiacos, Wendell Alexis e David Wood, compagni in quella Livorno che nel 1989 perse di un soffio e tra le polemiche la finale scudetto, Bill Edwards, che ha finito la stagione a Roma, l’MVP della CBA Jimmy King, un altro King, Gerard, ala grande in forza a Siena, Jimmy Oliver dalla Liga spagnola, e ancora altri CBA come Kiwane Garris, Ashraf Amaya e Jason Sasser che si vedranno in seguito in Italia e in Europa. Infine, i due collegiali: uno, Trajan Langdon da Duke, chiamato all’ultimo momento per sostituire l’infortunato Mateen Cleaves da Michigan State, farà fortuna nel Vecchio Continente; l’altro, Brad Miller da Purdue, non scelto al Draft e anche lui passato da Livorno, sarà due volte All-Star NBA.

Le sedici di Atene

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Il Peace and Friendship Stadium del Pireo ai Mondiali di basket 1998.

Con sedici squadre partecipanti, suddivise in quattro gironi per la prima fase eliminatoria, i Mondiali di basket 1998 si disputano dal 29 luglio al 9 agosto in una sola città, la capitale, Atene. Due le arene: l’OAKA a Maroussi, bestione da ventimila spettatori che nel 2004 ospiterà le Olimpiadi, e il vecchio Peace and Friendship Stadium, al Pireo, che ne tiene tredicimila e che sa infiammarsi come forse nessun altro. Qui, nel 1987, in un clima infuocato dentro e fuori dal palazzo, la Grecia di Nikos Galis e Panagiotis Yannakis – oggi coach degli ellenici – conquistò il primo titolo europeo. Un successo che di fatto mise la Grecia sulla mappa del basket che conta. Ora, dopo il deludente quarto posto a EuroBasket 1995, disputato sempre ad Atene ma all’OAKA appena inaugurato, i greci cercano una nuova impresa di fronte al loro pubblico.

Il primo turno è agevole, se non sei un disastro: esce solo l’ultima, passano le altre tre. Poi due gruppi da sei, mantenendo i punteggi acquisiti: fuori le ultime due, non impossibile. Infine, eliminazione diretta con quarti di finale, semifinali e finale. Le assenze illustri e diffuse un po’ in tutte le squadre, non sono solo roba di oggi: tante le defezioni anche allora, e non necessariamente per via del lockout NBA.

La Grecia è nel gruppo A con Italia, Canada e Senegal. Non è la più forte, ma in casa sa trasformarsi. Papanikolaou è il leader, Oikonomou e Alvertis ali capaci di giocare vicino e lontano da canestro, Tsakalidis e Rentzias presidiano l’area, con Fassoulas, esperto reduce del 1987. Il loro gioco dal ritmo controllato è, come sempre, durissimo da affrontare: un mix di tecnica, esecuzione e presenza fisica. E poi, più l’atmosfera è pesante e tesa, più i greci si trovano a proprio agio. Il Canada potrebbe essere fortissimo, ma non lo è: una storia che ricorda un po’ il 2019. Mancano gli NBA Steve Nash, Rick Fox e Bill Wennington. Coach K, non Krzyzewski ma Konchalski, è un gran motivatore: tuttavia non ha molta scelta se non affidarsi a Todd MacCulloch, gran realizzatore a livello NCAA, al lungo Peter Guarasci di Pesaro e a un nugolo di onesti mestieranti di leghe europee come Rowan Barrett (padre dell’odierno RJ), Michael Meeks, Greg Newton. Il Senegal annovera ragazzoni che giocano in America al college, come Boubacar Aw di Georgetown, Makthar Ndiaye di North Carolina o Mamadou Ndiaye di Auburn: non sembrano però in grado di piazzare colpi a sorpresa. Dell’Italia parliamo tra poco.

Il gruppo B sembra piuttosto scontato, con Jugoslavia e Russia a farla da padrone, il Portorico “genio e sregolatezza” in terza posizione e ultimo il Giappone chiamato a una dura realtà che è ben diversa dai manga di Slam Dunk. È la Jugoslavia la squadra più attesa: esclusa dai Mondiali 1994 per via delle sanzioni internazionali, torna prepotentemente alla ribalta laureandosi campione d’Europa nel ’95 e nel ’97, composta ovviamente da soli serbi e montenegrini. Si presenta ad Atene con un gruppo piuttosto ringiovanito, ma spinto da un’enorme voglia di dimostrare ancora una volta di essere il più forte. Una squadra in missione, agli ordini di coach Zelimir Obradovic. Assenti Divac, Paspalj, Savic e Danilovic, perni della squadra sono allora Bodiroga e il trevigiano Rebraca, oltre a Tomasevic, Beric, Scepanovic, Drobnjak, Topic, l’Obradovic visto alla Virtus Roma e un Djordjevic non al meglio, ma che se c’è da dare il proprio contributo non si tira certo indietro. La Russia di Sergej Belov, l’eroe di Monaco ’72 e a inizio anni ’90 finito misteriosamente ad allenare Cassino in B2 italiana, è la finalista del 1994. Squadra solida, forte, ben costruita, che ha in Karassev, Babkov, Koudelin notevoli realizzatori, ma come spesso accade è un team a cui sembra sempre mancare qualcosa dal punto di vista caratteriale.

Nel gruppo C, quello degli USA, la Lituania gode di parecchio credito, forte dell’ex Seton Hall Karnisovas rifiutato dalla NBA e in procinto di accasarsi alla Fortitudo Bologna. Con lui, elementi di qualità assoluta come Stombergas e il lungo Einikis, pressoché impossibile da stoppare con i suoi ganci. Brasile, senza l’ormai quarantenne Oscar Schmidt, e Corea del Sud sono poca cosa.

Nel gruppo D a partire con i crismi della favorita è l’Australia, l’unica che è riuscita a mantenere un giocatore NBA, Chris Anstey dei Dallas Mavericks (ma non Luc Longley) e che punta tutto su due straordinari realizzatori: Andrew Gaze e Shane Heal. Alle loro spalle l’Argentina, dove inizia a prendere forma la Generacion Dorada con Sconochini, Nicola, Montecchia, Oberto, Wolkovyski, Sanchez e un Ginobili ancora reggino, e la Spagna, forte ma non ancora “quella” Spagna degli anni venturi, in cui l’unico fuoriclasse è Herreros, che sarà il miglior realizzatore dei Mondiali 1998. La mediocre Nigeria, infine, è la vittima designata.

La prima Italia di Tanjevic

Boscia Tanjevic con Carlton Myers e Andrea Meneghin
Boscia Tanjevic con Carlton Myers e Andrea Meneghin / Foto: Jacques Demarthon.

Otto anni dopo il nono posto del 1990 a Buenos Aires e quattro dopo l’assenza a Toronto 1994, l’Italia si ripresenta ai Mondiali di basket con al petto l’argento europeo di Barcellona ’97 e in una veste però nettamente diversa. Coach Boscia Tanjevic ha preso il posto di Ettore Messina e guida un progetto che punta alla partecipazione ai Giochi Olimpici di Sydney 2000, attraverso un piazzamento a EuroBasket 1999. Quella dei Mondiali ateniesi è la prima partecipazione dell’Italia firmata Tanjevic a una grande competizione: un’ottima occasione per costruire un gruppo sì differente da quello di Messina, ma in continuità per valore e potenzialità.

Il basket italiano viene da una stagione particolare, conclusa con lo stellare derby bolognese in finale scudetto tra Virtus e Fortitudo, con la prima vincente grazie al famoso 3+1 di Danilovic su Wilkins. Il fortitudino Carlton Myers si chiude nel silenzio, i contrasti non il commissario tecnico non mancano, ma si conferma leader indiscusso della nazionale. Dell’anno precedente rimangono Fucka, Galanda, Abbio, Frosini e Bonora. Per il resto, Tanjevic opera un consistente rinnovamento, convocando in azzurro tre titolari della Varese che nell’annata successiva si lancerà alla conquista dello “scudetto della stella” (Pozzecco, Meneghin, De Pol), la rivelazione Gianluca Basile da Ruvo di Puglia via Reggio Emilia e i due lunghi Chiacig e Damiao. Fuori la vecchia guardia Carera, Gay, Pittis, Moretti, Coldebella. Marconato è out per infortunio.

Anche a livello di sistema di gioco ci sono dei cambiamenti. Tanjevic predilige quintetti alti e atletici: a un playmaker puro, nella fattispecie Bonora e Pozzecco, preferisce guardie possenti in grado di difendere sui diretti avversari, sempre più impegnativi dal punto di vista fisico. Quindi Meneghin, Myers, Basile e De Pol si trovano spesso a portar palla, con Fucka alzato ad ala piccola. Myers resta sempre il punto di riferimento, nonostante per lui – che si trovava a meraviglia con Bonora – l’adattamento non sia semplice.

Il percorso di avvicinamento ai Mondiali è piuttosto contraddittorio per l’Italia, con il livello dei dubbi che sale ulteriormente dopo il crollo in amichevole con la Francia. Segue l’ultimo appuntamento prima della partenza: l’amichevole con gli Stati Uniti, a Roma. Doveva essere una serata da show con il Dream Team, ma il test con la Dirty Dozen non viene trasmesso neppure in diretta Rai. Vincono gli americani di cinque punti, con Meneghin che non riesce a contenere lo sgusciante play avversario Michael Hawkins. Una situazione che si ripresenterà.

Mondiali di basket 1998: le fasi a gruppi

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Gregor Fucka, l’Airone / Foto: Aldo Liverani.

L’Italia debutta al Pireo contro il Senegal, ma deve fare a meno del febbricitante Myers: una brutta faringite lo tiene fuori per le prime due partite. Tanjevic torna all’antico, affidandosi al play puro: prima Bonora e poi Pozzecco. Guarda caso, proprio nei momenti in cui i due sono in panchina la squadra soffre il pressing degli africani. Finisce 76-66, prestazione bruttina ma l’importante è il risultato. Decisivo Meneghin con 18 punti e 6/8 dal campo e un paio di triple nei momenti topici. La Grecia rischia qualcosa nell’esordio casalingo con il Canada: Joey Vickery, un carneade piccoletto che gioca nella seconda serie francese, entra dalla panchina e mette dentro 6 triple su 7 tentativi. Ma padroni di casa riescono a prevalere 78-72.

Seconda giornata, a OAKA: ventimila spettatori attendono Grecia-Italia. Gli azzurri finiscono il primo tempo (nel basket FIBA non c’erano ancora i quattro quarti) avanti 35-39, con un Fucka super, ma in tutta la ripresa mettono a segno la miseria di 17 punti, frutto di un gioco ristagnante e individualista. L’Italia riesce a tornare in vantaggio a cinque minuti dal termine, ma un exploit di Papanikolaou e qualche fischio arbitrale dubbio consentono l’allungo decisivo della Grecia, che vince 64-56, in una di quelle partite così congeniali agli ellenici. Nella terza giornata, l’Italia deve cercare due punti con il Canada, che fanno comodo per la seconda fase: mette piede in campo per la prima volta Myers, che segna 11 punti, ma è la coppia di Varese Menego-Poz a venire fuori. 18 punti per il figlio di Dino, 13 per un esaltato Gianmarco protagonista di sregolate scorribande a canestro e di siparietti con Tanjevic. La partita finisce 79-69 grazie ad alcuni contropiede innescati dagli anticipi difensivi di Damiao: un segnale di come si stia costruendo un gruppo in cui di volta in volta emerge qualcuno in grado di collocare il proprio prezioso mattoncino.

Alla seconda fase l’Italia affronta Jugoslavia, Russia e Portorico, con l’obiettivo di vincerne almeno una per entrare nei quarti di finale.

Negli altri gironi, la Jugoslavia prevale sulla Russia al supplementare, mentre gli USA dopo aver superato il Brasile incappano nella prima sconfitta di fronte alla Lituania di Karnisovas, autore di 29 punti. L’Australia perde di misura le prime due partite, che le si riveleranno fatali: 66-62 con l’Argentina (19 di Oberto) e 77-76 con la Spagna. Ed è solo grazie ai 24 punti di Shane Heal che si rifanno con la Nigeria. L’ossigenato tiratore dei Boomers non siederà in panchina neppure un minuto in tutte le partite disputate.

Comincia la seconda fase a gruppi e l’Italia frana subito di fronte alla Russia: 55-71, dopo il primo tempo in parità. Myers e Meneghin deludono, e con Abbio infortunato è sinceramente troppo. Fucka e Chiacig le provano tutte, ma Babkov con 26 punti è imprendibile e la sofferenza degli Azzurri contro le atletiche guardie russe è troppo forte. Segue la prestigiosa vittoria di un solo punto (61-60) con la Jugoslavia: una grande difesa orchestrata da Tanjevic forza venti palle perse contro le sole otto italiane. Myers e soci si spingono fino al +8 a 1’50” dalla sirena, ma gli jugoslavi con un parziale di 2-11 tornano avanti. Sono allora i due tiri liberi di Myers a 20″ dalla fine e gli errori di Topic e Obradovic nel possesso decisivo a regalarci un successo però ininfluente per la classifica: a differenza delle previsioni iniziali, ora serve anche una vittoria con l’imprevedibile Portorico. Un avversario ostico, che quattro anni prima ha battuto proprio l’Italia ai Goodwill Games. L’Italia conduce la partita, ma non si scrolla mai di dosso i caraibici e il veterano Josè “Piculin” Ortiz è un rebus sotto canestro: soltanto una palla rubata da Basile a 15” dal termine scaccia via le paure. Fondamentali le tre triple di Galanda e i 13 punti di Abbio, mentre un Myers piuttosto asfittico in attacco si prodiga in una gran difesa sul temuto Eddie Casiano.

Mondiali di basket 1998: la fase finale

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Zeljko Rebraca durante la finale con la Russia.

Tempo di quarti di finale. D’ora in poi si gioca solo all’OAKA di Atene. La Jugoslavia regola l’Argentina 70-62 e la Grecia ha la meglio sulla Spagna 69-62. Con 31 punti di Karassev, la Russia batte nettamente la Lituania. All’Italia toccano gli Stati Uniti, che hanno vinto nettamente con l’Australia, eliminandola dalla competizione, nonostante i 31 punti di un inarrestabile Heal. La partita scorre in equilibrio, con gli Azzurri bravi a ricucire un paio di break avversari e a portarsi a +6 a 4′ dalla conclusione.

Carlton Myers esce dal chiaroscuro che finora ha caratterizzato il suo Mondiale e prende in mano la squadra: alla fine saranno 32 i punti per lui. La mossa vincente, però, la piazza coach Rudy Tomjanovich nel secondo tempo, quando rinuncia per un attimo alle sue rotazioni fatte con l’orologio e manda in campo insieme due agili playmaker, Kiwane Garris e Michael Hawkins. Un assetto che nell’amichevole di preparazione aveva creato qualche difficoltà alla coppia di guardie alte e atletiche su cui Tanjevic si ostina a puntare. Risultato: negli ultimi quattro minuti gli USA vanno 11-2 con un grande Garris e sorpassano l’Italia. Nei secondi finali, Myers prova a vincerla da solo ma i suoi tentativi vanno a vuoto. Italia fuori dai Mondiali: finirà sesta, dopo aver battuto la Lituania e perso con la Spagna nel torneo di consolazione. Non il massimo della vita, ma per l’Italia c’è la consapevolezza di poter contare su un gruppo importante: infatti un anno più tardi arriverà uno storico oro europeo.

In semifinale, la Russia supera gli Stati Uniti 66-64 con 30 punti di Babkov. Questa volta sono gli Stati Uniti a subire la rimonta: avanti di 10 a 3′ dalla sirena, la luce si spegne e i russi recuperano lo svantaggio. Quando mancano soltanto dieci secondi, Panov s’invola solitario in contropiede e nonostante la marcatura di Gerard King va a realizzare il canestro della vittoria. L’altra semifinale è una bolgia dantesca: la Grecia padrona di casa fronteggia la Jugoslavia e si porta avanti fino a 12 lunghezze, ma ancora loro, Bodiroga e Rebraca, guidano una lenta ma inesorabile rimonta fino a condurre la gara al supplementare. Qui la Jugoslavia prevale 78-73: il pubblico impazzisce e a fine partita scatena una pioggia di oggetti in campo, tanto che gli arbitri devono uscire scortati. Un classico ateniese.

9 agosto 1998, il giorno della finale. La Russia si ripresenta all’ultimo atto come quattro anni prima, la Jugoslavia rivuole il tetto del mondo già assaporato nel 1970, 1978 e 1990, seppur con la “vecchia” Jugoslavia, quella ancora unita. La partita è tesa, equilibrata, con punteggi bassi. La Russia mette spesso la testa avanti, ma senza creare parziali importanti. Rebraca è il migliore in campo, con 16 punti e 11 rimbalzi. E le giocate decisive sono tutte sue: due stoppate su Mikhailov a 31″ e a 25″ dalla fine, un canestro su rimbalzo offensivo e due tiri liberi. La Jugoslavia prevale 64-62 e Dejan Bodiroga è nominato MVP dei Mondiali. Jugoslavia campione: l'”Incubo Europeo“, definizione stampata sulle t-shirt celebrative dei giocatori, è tornato.

Se la Jugoslavia è meritatamente campione del mondo e la Russia, un film già visto, è mancata sul più bello, alla fine chi ci ha rimesso di più è stata la Grecia: nella finale per il terzo posto, gli ellenici vengono dominati dagli Stati Uniti 84-61. Niente medaglie. Una situazione che si ripeterà con la Lituania alle Olimpiadi 2004: quando gli USA vengono eliminati in semifinale, la sfortuna è tutta di chi dovrà incontrarli nella finalina per il bronzo… In conclusione, c’è da dire che la Dirty Dozen ha meritato pienamente la sua medaglia. Da squadrache non doveva neanche esserci, non ha fatto mai mancare impegno e coesione: quei giocatori hanno onorato il proprio paese e i Mondiali di basket 1998 nel migliore dei modi, portando a casa un bel ricordo da raccontare un giorno ai nipoti.

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