“The Last Dance”, episodi 7 e 8: la recensione

Penultimo appuntamento con The Last Dance, la serie evento sulla carriera di Michael Jordan, incentrata sul suo ultimo anno con i Chicago Bulls, la stagione del repeat of three-peat.

Come abbiamo già sottolineato nella recensione delle puntate 5 e 6, è indiscutibile la centralità del numero 23 all’interno di un prodotto appetibile anche per i non appassionati. L’uscita anticipata su Netflix (in occasione di un lockdown quasi mondiale) ha permesso a un pubblico di profani di appassionarsi alle evoluzioni di quella squadra, e non esiste viatico migliore che la carriera di uno degli sportivi più iconici di sempre, per narrarne le gesta.

Tutto questo pone il prodotto su un livello differente rispetto alle altre produzioni ESPN, in particolare guardando alla serie documentaristica 30 for 30, magistrale in materia di giornalismo sportivo connesso con la narrazione. Perché se la storia di Jordan è conosciuta anche dai più recenti appassionati di NBA, la sua evoluzione ha generato tutto quello che i Bulls hanno rappresentato nei nineties della lega professionistica di pallacanestro statunitense.

Come abbiamo più volte detto nelle “puntate precedenti”, neanche una storia già divorata e metabolizzata può togliere magnetismo al personaggio, inevitabilmente “uomo solo al comando” anche di queste dieci puntate. L’errore – rispetto alle aspettative – stava soltanto nel prevedere un racconto farcito di particolari inediti, al centro del quale fluttuava quella squadra di Chicago, mai come adesso affrescata sotto il generico appellativo di “Jordaners”, magari non troppo dispregiativo.

Eppure il clamore mosso da The Last Dance ha permesso a Sky Sport NBA di riproporre la serie di Finals completa della stagione 1997-98, in palinsesto per l’intera giornata di domenica 10 maggio 2020. Oltre al piacere di riascoltare le emozionanti telecronache del duo Tranquillo-Buffa, rivivere quei momenti ci regala una prima impressione sulla quale riflettere. Come già avvenuto nella prima e nella seconda recensione di questa serie, proporremo a seguire 5 spunti, partendo proprio dal “campo” e dalle sfide che furono.

Il vero drama è la serie finale

Rivedere una dopo l’altra le 6 gare che decisero l’ultimo ballo di Chicago, restituisce la drammaticità di un momento irripetibile, forse meglio delle 8 puntate visionate fino ad oggi. A vivere quei tempi attraverso l’ottima narrazione cinematografica, perdendosi tra i flash back del passato, si rischia di non percepire la veridicità del tutto.

Quella serie tra Bulls e Jazz appare ancora oggi come un autentico film, carico di colpi di scena, di montagne russe, di singole imprese memorabili, di scontri epici. E come in ogni sceneggiatura hollywoodiana che si rispetti, “il buono” la vince da solo, in un modo che ancora oggi appare quasi finto. È talmente tutto così perfetto – quel crescendo che da gara 1 porta a The Shot – che sfido chiunque a non aver pensato ad un qualcosa di preparato, almeno per mezzo secondo, durante la visione.

Osservare alla fine, sul palco della premiazione, la distanza fisica ed emotiva tra “i due Jerry”, coach Jackson e la squadra, resta ancora una volta il titolo di coda perfetto per una pellicola dal lieto fine amaro. Eppure sappiamo perfettamente che niente era orchestrato ad arte, che i Jazz lottarono fino in fondo con una squadra spremuta sia fisicamente che psicologicamente, senza riuscire nell’impresa.

Perché l’uomo mentalmente più in controllo di sempre in un singolo – drammatico – momento, non avrebbe potuto perderla. E questo sottolinea ancora una volta la sua grandezza, oltre che introdurre il secondo spunto di giornata.

Ma davvero pensavano di vincere?

Fa quasi impressione, riguardando le interviste agli avversari “scomodati” per The Last Dance, quella sensazione che ognuno di loro aveva di poter battere i Bulls in quegli anni. Abbiamo sentito giocatori del calibro di Clyde Drexler, Charles Barkley, Patrick Ewing, Gary Payton e Reggie Miller crederci, affermare di sentirsi superiori e quindi in grado di avere la meglio.

Una percezione che, da spettatore in quegli anni, non stava né in cielo, né in terra. Questo perché sembrava impossibile che qualcuno riuscisse a battere i Chicago Bulls con Jordan, e quel sistema capace di rigenerarsi sfruttando i diciotto mesi di ritiro da parte di His Airness, era pronto a dimostrarlo partita dopo partita.

Proprio per questo l’episodio del 1995 contro Orlando, con un MJ presentatosi con una legittima forma discutibile alla post season (dopo mesi lontano dai campi), appare ancora oggi ai limiti dell’assurdo. Anche se quella squadra era palesemente scollegata, probabilmente minata dal reintegro di un ego così grande in un gruppo in decadenza, destinata a perfezionarsi nell’estate a venire. Eppure, nel primo anno senza Michael, i Bulls di coach Zen erano piaciuti, e neanche poco.

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La miglior applicazione del Triangolo del decennio

Infatti la miglior applicazione della filosofia sposata da Phil Jackson (ed ideata da Tex Winter), l’abbiamo vista solo nell’unica stagione in cui Chicago era orfana di Michael, quella del 1993-94. Difficile pensarli come una contender, ma la non-leadership di Scottie Pippen, unita dall’arrivo di Toni Kukoc, favorì il miglior gioco corale della decade visto in Illinois.

Destino volle che dopo 7 partite di finali di conference, New York risultasse più forte, seppur clamorosamente aiutata da un fischio ancora dubbio nel finale di gara 5. In quello che era il pivotal game del Madison Square Garden, il fallo fischiato a Scottie su una tripla di John Starks grida ancora vendetta, e probabilmente determina l’evoluzione dello scontro in modo irreversibile.

Vedere i Bulls confermarsi ad est senza MJ, magari giocandosi il tutto per tutto contro gli Houston Rockets nelle Finals, avrebbe sicuramente cambiato la storia della lega. Chissà se Michael sarebbe mai tornato, se Chicago avesse vinto anche senza di lui.

Le lacrime di Jordan

Ma tornando al protagonista assoluto del racconto, se da una parte desta quasi sensazione la sua durezza con i compagni (e stavolta i contenuti inediti proposti, ci restituiscono qualcosa di mai visto), dall’altra è inevitabile la tendenza alla lacrima facile. La stessa che è divenuta un meme a causa di un famoso fotogramma rubato durante il suo discorso di ingresso alla Hall of Fame, replicata anche recentemente, nel momento forse più toccante del Memorial dedicato a Kobe Bryant.

Jordan è un duro, un malato di competizione ossessionato dalla supremazia, il maschio alfa esemplare. Eppure non teme le sue emozioni, ed è capacissimo di mostrarle senza vergogna anche nei momenti pubblici. Non vogliamo spoilerare troppo, ma se avete capito l’evoluzione narrativa seguita in The Last Dance, capirete che la perdita del padre, il ritiro e la vittoria del quarto titolo durante “la festa del papà” sono decisamente in scaletta nelle puntate in questione.

Vedrete più volte gli occhi rossi di Mike inumidirsi, sia nelle riprese storiche che durante le interviste recenti, ascoltando addirittura (e forse per la prima volta) autentici singhiozzi di disperazione. Insomma, l’uomo che tutto controllava ci viene restituito anche nel suo lato più puro, inevitabile. Quello umano. E stavolta senza dover scendere troppo nel vortice dei suoi vizi, restando ancorati alla più lodevole tra le sue virtù.

Quei Sonics non erano solo Payton

Permettete un ultimo appunto, da vecchio fan di quei Seattle Sonics che giunsero in finale nel 1996, e si tratta dell’unico vero spoiler di questa recensione. D’accordo che la produzione ha deciso di intervistare “The Glove”, ma quella versione di Seattle non era solo Payton dipendente.

Non ricordare una serie incredibile giocata da Shawn Kemp, appare quasi un crimine. Soprattutto perché l’ala grande della Città di Smeraldo mise seriamente in difficoltà un Dennis Rodman strepitoso, il vero “MVP romantico” della sfida decisiva. Il fattore che permise a Chicago di vincere grazie ad una prova corale, dove lo stesso Michael – probabilmente affaticato ed emotivamente provato dal ritorno all’apice – non gioca esattamente una serie da “dominatore”.

Nella stagione delle 72 vittorie, mai i Bulls furono così squadra come nelle Finals contro Seattle, permettendo a MJ di non dover forzare gli straordinari, e mantenendo alta una qualità di contorno che diviene decisiva per il successo definitivo. D’accordo che la serie è “l’ultimo ballo di Michael”, ma qualcosina di più sui meriti dei cosiddetti “Jordaners”, in quell’occasione, si poteva anche sottolineare.Stesso  discorso per la famosa gara 6 del 1992 contro Portland, in cui His Airness carbura solo nel finale, riuscendo a portare a casa il secondo anello in carriera grazie ad una rimonta prodotta da un quintetto di panchinari, colpevolmente non ricordato nella serie tv targata ESPN e Netflix.

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