The Rookie #1 – La benedizione dello sdeng!

Il suono più comune dell’errore commesso nel gioco del basket è sdeng! Quando la palla a spicchi non entra e batte sul ferro del canestro, parte uno sdeng a ricordarti che hai fallito, che il tiro è stato fallace, che qualcosa è andato storto.

Forse le tue gambe erano poco piegate. Forse eri posizionato in modo errato rispetto al canestro. La distanza non ti era confacente per le capacità possedute. Ti sei distratto, ti sei fatto prendere dalla smania, dall’attenzione puntata su di te. O dal semplice fatto che la palla, soprattutto se sei un rookie, può come scottare un po’ tra le mani, e non vedi l’ora di liberartene, senza starci a pensare troppo.

La verità è che uno sdeng è duro da digerire. Dentro e fuori dal campo. Gli errori possono appiccicarsi alla pelle, insinuarsi nella fiducia interiore e minarla fino a determinare l’identità di ciò che saremo domani. Possono essere devastanti soprattutto se irrimediabili, gravi e difficili da accettare.

Ogni sdeng ha un peso diverso, perché c’è canestro e canestro. Il buon Phil diceva che più importante del segnare, è quando lo si fa. E un canestro sbagliato su una parità nell’ultimo quarto, a pochi secondi dalla fine, ha un segno strategico capitale. Sbagliare in questo caso ha il valore di uno sdeng che risuona nell’anima e vibra nelle ossa, fino a rintronare nel cervello e lacerare il cuore.

Così nella vita, anche fuori dal campo, esistono sdeng da fermate il gioco e lasciatemi stare, lasciatemi uscire e sparire senza troppa commiserazione. Ma non è tutto qui. Nello spazio che esiste subito dopo lo sdeng, c’è un mondo di possibilità che nella perfezione della riuscita non potrebbe crearsi.

La più grande è insita nel senso di solidarietà dei miei compagni di squadra, che mai mi fanno sentire a disagio quando sbaglio, e non solo i canestri, ahimè. Hanno sempre una parola di incoraggiamento in quel mezzo secondo che esiste prima di passare alla difesa. E se comunque il tiro era buono e non è entrato, non mancano gli applausi e i batti-cinque.

sdeng basket tiro canestro
Foto: Mira Kireeva / Unsplash

Perché è giocare bene che conta, al di là della vittoria o della sconfitta. È vivere pienamente che conta e gli errori che si commettono sono parte di essa, al pari di ogni orgogliosa messa a segno!

L’errore dona quindi un senso di umanità e di sollievo: la perfezione non è di questo mondo ed è più comune sbagliare che non farlo. Mille sdeng per un canestro signori! Vale per tutti, persino per Michael Jordan, pur se con percentuali diverse. Come direbbe il mio coach ad Avila: “Hai sbagliato, e allora? Gioca!“.

Del resto, come fermarsi? È il gioco che ti chiama ad andare avanti, ad andare oltre, a trasformarti in un difensore, ad anticipare il tuo uomo, a far sì che la squadra avversaria si porti a casa uno sdeng e non un canestro, o che proprio non arrivi a tirare. Nel basket non c’è indugio.

Sul campo si gioca, si cerca il canestro nell’azione successiva e in questo continuo alternarsi di attacco e difesa l’errore è un evento come un altro, una possibilità come un’altra che non blocca il duello, ma contribuisce a crearlo e a renderlo interessante.

Se tutti segnassero sempre non ci sarebbe partita né gioco. Se tutti riuscissimo ogni volta, non avremmo più alcun obiettivo da perseguire, alcuna strada da percorrere, alcun traguardo da tagliare. Benedetto allora ogni errore, ogni canestro mancato, ogni sdeng!

E se proprio un giorno avessi voglia di fermare il mondo e di scendere, guarda bene nel tuo bagaglio: se c’è una palla a spicchi sei salvo. Perché uno dei più grandi insegnamenti di questo straordinario e amatissimo gioco è che, errore dopo errore, si gioca e si vive. Si celebra l’esistenza in sé stessa, la fortuna dell’essere qui di poter sbagliare e di poter giocare a basket.

Prima foto in alto: Artur Kornakov / Unsplash