Libri di basket: “Gli dei dell’asfalto” di Vincent M. Mallozzi

Ogni religione ha la sua mecca e il basket di strada non fa eccezione. Basta un paio di coordinate: 115th Street & 8th Avenue. Punto di arrivo Rucker Park, Harlem, New York, l’olimpo degli dei dell’asfalto. E Gli dei dell’asfalto di Vincent M. Mallozzi (titolo originale Asphalt Gods) è il libro che narra la storia del playground più famoso del mondo.

Mallozzi, giornalista del New York Times nato e cresciuto non lontano da lì e avvezzo in gioventù a temprarsi gomiti e carattere sui campetti di quartiere, ha sfornato queste 285 preziose pagine di storie, leggende, personaggi e… soprannomi – perché se non hai un soprannome al Rucker non sei nessuno – nel 2003. Diciotto anni dopo ecco l’edizione italiana, grazie a un’add editore che continua a cesellare gioiellini cestistici uno dopo l’altro. La traduzione è di Michele Pettene e Pietro Scibetta, due autori che ben conoscono il concetto di qualità applicata alla pallacanestro.

Gli dei dell’asfalto fissa su carta, con taglio eminentemente giornalistico, aneddoti e vicende che, visti dall’epoca odierna, hanno una particolarità non di poco conto: la tradizione orale. Infatti, gran parte di ciò che è andato in scena su quel sacro cemento non è documentato da video, foto o statistiche, ma solo da chi ha avuto modo o fortuna di esserne testimone oculare e di tramandarne le gesta come gli antichi aedi. Tanto che spesso esistono più versioni della stessa impresa di questo o quell’eroe dei playground che ha calcato il suolo del Rucker.

155th & 8th, NYC.

Gli dei dell’asfalto: lo spirito del Rucker Park

Leggere Gli dei dell’asfalto fa subito venir voglia di afferrare un pallone, meglio ancora se vecchio e consumato, e di recarsi al playground più vicino – se si ha il privilegio di stare a New York, direttamente al Rucker Park! – portando con sé il libro nello zaino. E una volta lì, nelle pause tra una partita e l’altra o chiacchierando di basket sugli spalti con il vicino di posto, aprirlo ogni tanto per rileggere una vicenda o andarsi a rivedere il motivo di un nickname.

Riga dopo riga, infatti, sembra proprio di ritrovarsi all’ombra dei palazzoni di Polo Grounds, avvertire il fremito e il clamore della folla entusiasta in una calda serata estiva, mescolati al sottofondo di musica soul o rap e al rumore della strada, nel cuore pulsante di un quartiere che ha fatto la storia d’America, mentre in campo vanno in scena vibranti e sanguigni duelli a suon di schiacciate e stoppate.

Rucker Park è l’anima di New York, dove il basket è The City Game. Qui non conta chi sei o da dove vieni, ma solo ciò che sai fare in campo, il cuore che ci metti, la capacità di farti rispettare. Questo significa pallacanestro a New York. Sui playground generazioni di ragazzi hanno affinato il loro gioco, portandolo a un livello più alto, alimentando sogni e ambizioni, tirando fuori il coraggio e la determinazione indispensabili per sopravvivere e affermarsi nella metropoli.

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Rucker Park nel 2017 / Foto di Francesco Mecucci.

Il sogno di Holcombe Rucker

Ne Gli dei dell’asfalto, Vincent M. Mallozzi racconta il basket che ogni estate anima Rucker Park, da fine anni ’40 ai nostri giorni. E lo fa partendo dalla figura del “pifferaio magico” di Harlem: Holcombe Rucker, ex marine, addetto alla manutenzione dei parchi, ma molto più di un semplice custode. Carismatico, dotato di forti capacità relazionali, Mr. Rucker era ossessionato dal tenere i ragazzi lontano dai pericoli della strada, a tal punto da diventare una sorta di mentore, un educatore la cui influenza andava ben oltre i tornei da lui organizzati. Ad esempio, sfruttava l’enorme reputazione che si era costruito, per segnalare alle università i migliori talenti.

Holcombe morì di cancro nel 1965, non ancora quarantenne, ma ormai il torneo che porta il suo nome era talmente affermato che non fu un problema perpetuarne la tradizione. E proprio in quell’anno si trasferì nel playground oggi noto come Rucker Park. Che poi in realtà sarebbe il nome del giardino, mentre il campetto vero e proprio si chiama Greg Marius Court. Cioè colui, scomparso nel 2017, che a metà degli anni ’80, dopo una fase di declino, rilanciò il torneo come EBC (Entertainers Basketball Classic).

Ma prima di tutto ciò, la leggenda del Rucker risiede nel fatto che i professionisti venivano qui a misurarsi con i migliori ballers di strada. Le storie degli uni si intrecciano con quelle degli altri, livellando i background e fondendosi nell’atmosfera unica di Harlem. Il torneo ha segnato l’evoluzione del gioco ed è stato precursore di una pallacanestro più libera ed estrosa. Inoltre, nell’epoca della segregazione razziale, era uno dei pochi posti dove bianchi e neri potevano giocare insieme. Da quel basket duro e spettacolare nascevano infiniti duelli individuali e storiche rivalità. The Bronx e Brooklyn, per esempio. O New York e Philadelphia.

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Julius Erving al Rucker.

Campioni NBA vs eroi della strada

Wilt Chamberlain, Lew Alcindor, Julius Erving, Stephon Marbury, Allen Iverson hanno condiviso l’asfalto con signori che mai raggiunsero, o soltanto sfiorarono, il college e la NBA. E che a volte sono finiti a giocare nel cortile di un penitenziario. Gente nota più per il soprannome che per il nome, quali Connie Hawkins, “The Hawk”. Oppure Herman “Helicopter” Knowings, “Jumpin'” Jackie Jackson, Richie “The Animal” Adams. O ancora Bill “White Jesus” Rieser (perché il “Black Jesus” era Earl Monroe…), Kareem “Best Kept Secret” Reid, James “Fly” Williams. Fino al più grande di sempre, Earl Manigault, “The Goat”, e alla coppia di guardie più esplosiva mai vista sul cemento: Joe “The Destroyer” Hammond e Richard “Pee Wee” Kirkland. Due elementi a loro agio con una palla a spicchi così come nel gestire attività losche nelle strade.

Erving provava al Rucker movimenti che poi avrebbe replicato sui parquet della NBA. Nel 1971 fu protagonista di una sfida memorabile al fianco di Nate “Tiny” Archibald contro Hammond-Kirkland. “Doctor J” racconta: “Quella del Rucker è sempre stata un’esperienza da far tremare le vene. Ogni volta dovevi arrivare pronto per la battaglia, far sentire la tua presenza. Elevarti, o venire schiacciato. Non potevi mai concederti il lusso di fare solo giocate nella media“.

A lui fa eco Mike Riordan, ex Knicks: “Se hai la malaugurata idea di presentarti da quelle parti fuori forma te ne accorgi subito: ragazzi di cui non mai sentito nulla ti faranno il culo alla prima occasione utile“.

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Polo Grounds Towers sullo sfondo / Foto: Twitter @ilderiu.

Gli dei dell’asfalto: dall’età d’oro a oggi

Per lungo tempo il torneo del Rucker Park ha radunato il meglio del basket in circolazione, tanto da fungere da modello per ogni altra lega estiva negli Stati Uniti. Per molti vincere qui è stato più importante di ogni altro successo in carriera. Almeno fino a tutti gli anni ’70.

Con la crescita del professionismo e il lievitare degli stipendi, oltre al rischio di infortuni, sempre meno stelle NBA si sono affacciate dalle parti di Harlem, se non in sporadiche occasioni pensate più per far felici gli sponsor che per mettersi davvero alla prova su quel campo (è il caso di Vince Carter, Kobe Bryant e Kevin Durant). Dagli anni ’80, diventato EBC, il torneo è rifiorito, grazie anche a un rapporto sempre più stretto con la musica rap e la cultura hip hop. Oggi uno dei sostenitori più assidui è P. Diddy.

Il tempo passa, le cose cambiano e non ci si può fare nulla, ma gli dei dell’asfalto troveranno sempre nell’ambiente unico e inimitabile di Rucker Park, come è solito esclamare l’esuberante speaker Duke “Tango” Mills, il luogo “dove i sogni si realizzano e dove nascono le leggende“. E che Vincent M. Mallozzi ha saputo raccontare al meglio nel suo libro, un must have per i veri cultori del basket.

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