Libri di basket: “Il sesto uomo” di Andre Iguodala

Dopo Ettore Messina, Sarunas Jasikevicius, Meo Sacchetti, Kareem Abdul-Jabbar, Ian Sagar, Add editore regala agli amanti del basket un altro libro autobiografico che li conduce dritti nel cuore della vita di un’atleta professionista: Il sesto uomo di Andre Iguodala (300 pagine, 16€).

Scritto con Carvell Wallace (New York Times Magazine, GQ, ESPN, MTV, The New Yorker) e tradotto in italiano da Mauro Bevacqua (Rivista Ufficiale NBA, Sky Sport), in questo memoir Iguodala ripercorre la sua vita e la sua carriera, mettendo al centro sempre e solo la persona e i rapporti umani, sia quando parla di sé che degli altri. E, in un linguaggio semplice, concreto e diretto, propone la sua visione del mondo e di questo sport.

Un uomo e un giocatore partito da una cittadina di provincia dell’Illinois, dal nome che più comune non si può (Springfield), e arrivato a vincere tre titoli NBA con i Golden State Warriors e un oro olimpico con gli USA, utilizzando il basket nel modo migliore come strada per la maturità e via di uscita dall’anonimato.

Il sesto uomo: altruismo e fiducia

Scegliere come titolo Il sesto uomo è una straordinaria dimostrazione di umiltà e altruismo. Si riferisce a un breve, ma decisivo passaggio della sua storia: quando, agli ordini di coach Steve Kerr, accetta di uscire dalla panchina come elemento determinante in una delle squadre più forti di sempre. Nonostante i dubbi e il difficile adattamento, Iguodala diventerà MVP delle finali 2015 pur non facendo parte del quintetto iniziale. Un riconoscimento che, nel testo, non viene addirittura mai menzionato dal diretto interessato, a differenza dell’epica stoppata rimediata un anno più tardi da LeBron James. Quasi a voler ricordare che anche i momenti peggiori fanno parte del gioco.

Segni tangibili, questi, di come Iguodala sia un giocatore che abbia sempre fatto leva su qualità come intelligenza, concentrazione, consapevolezza del proprio ruolo ed etica lavorativa per affermarsi al top nella lega, nonostante il suo talento, per quanto buono, non sia mai stato considerato alla stregua dei migliori. Tanto che ai tempi del liceo, la Lanphier High School, c’erano altri ragazzi che sembravano destinati a un futuro glorioso, ma che forse non avevano la sua forza interiore. Non ci hanno creduto abbastanza.

Ci sono buoni giocatori e grandi giocatori – scrive – ma la distanza tecnica tra il miglior giocatore NBA e il peggiore non è poi così immensa. Tutti sanno tirare, palleggiare e passare, tutti sono forti fisicamente, per cui alla fine a far la differenza tra vincere e perdere è proprio la fiducia che hai in te stesso. Quando ripenso alla mia carriera, mi accorgo che ogni traguardo raggiunto non aveva tanto a che vedere con le abilità tecniche, anche se ci sono stati successi che da quelle sono derivati, quanto con la fiducia che avevo, perché ci sono stati momenti in cui ho dovuto credere in me anche quando qualcun altro faceva di tutto per assicurarsi che non lo facessi“.

L’intento de Il sesto uomo non è quindi l’esaltazione dei successi di Andre Iguodala. È invece narrare, prima, il percorso che lo ha portato fin lì e, poi, offrire un profondo quadro di come gira la vita nel mondo NBA. Senza mai mancare di fornire al lettore un punto di vista netto, personale, senza fronzoli, esprimendo il proprio pensiero anche quando scomodo. Attraverso il rapporto con compagni, allenatori, agenti, regole, fan, “Iggy” spiega cosa significa essere un professionista NBA e ancor prima un giocatore NCAA con prospettive di Draft: le pressioni a cui si è sottoposti, le torture che il fisico deve affrontare, la mercificazione del corpo degli atleti, l’ambiguità di coach e manager, il cambio di atteggiamento degli altri a seconda delle scelte compiute.

Ancora, in un leitmotiv che attraversa l’intero racconto emergendo a intervalli più o meno regolari, Andre parla di cosa vuol dire essere un afroamericano negli Stati Uniti contemporanei, dove il razzismo sistemico pregiudica non solo l’accesso a certi diritti di base, ma arriva a impedire ai neri, fin da piccoli, anche di sentirsi come gli altri, costringendoli ad accettare prassi e situazioni create in tutto e per tutto dai bianchi.

andre iguodala high school
Andre Iguodala ai tempi della high school / Foto: Doug Larson – The State Journal-Register

Andre Iguodala in tre tappe

Nel libro Il sesto uomo, suddiviso in dieci capitoli, si distinguono tre grandi parti. La prima, corrispondente all’introduzione e ai primi tre capitoli, è di carattere formativo: Andre Iguodala parte dalla sua infanzia di Springfield, città dell’Illinois tristemente nota per le rivolte razziali del 1908 che per decenni hanno reso la segregazione qualcosa di comunemente accettato. Racconta della sua famiglia, dell’educazione e della disciplina insegnategli da mamma Linda, donna dal carattere di ferro che vuole il meglio per i suoi due figli, Frank e Andre. Che stiano lontani dai guai della vita di strada, laddove per strada si intende anche una polizia pronta a qualsiasi sopruso verso gli afroamericani.

Seppur Springfield non sia esattamente il paradiso, Iguodala non viene da quel “ghetto” che a prima vista si potrebbe pensare. Per lui, il vero “ghetto” è un altro: è lo spettro di rimanere per tutta la vita in un posto di provincia, compiacersi di quel pericoloso letargo delle piccole città che ti fa finire a trovare un lavoro qualsiasi solo per tirare avanti fino a fine mese. Perciò vede prima nei tornei estivi AAU e quindi nell’approdo al college nel lontanissimo Arizona, occasioni imperdibili per mettere più miglia possibili tra se stesso e Springfield. “Come si fa a sopportare l’idea di vedere sempre le stesse facce, nei soliti bar, con i soliti problemi, nelle stesse strade, facendo ogni giorno la stessa cosa? – scrive Andre – Immagino che a qualcuno vada bene. Non vogliono niente di più, non ne hanno bisogno per essere felici. Va benissimo così, ma cosa succede a quelli come noi che vogliono di più e che non possono averlo? Era questo a darmi i brividi quando ci pensavo: l’idea che anche se volevi realmente andar via da questa città e scoprire il mondo là fuori, avresti potuto non farcela“.

La seconda parte, dal quarto al sesto capitolo, riguarda gli otto anni di esperienza NBA ai Philadelphia 76ers e l’unica stagione ai Denver Nuggets. Iguodala illustra tutto della sua vita nella lega, i rapporti con compagni e allenatori, ma anche i problemi con la stampa, con i tifosi e con la franchigia stessa in una realtà difficile come Philly, in cui a un certo punto, secondo un sondaggio, era diventato addirittura “l’atleta più odiato in città“. Per poi ritrovare serenità a Denver al fianco di Danilo Gallinari, il cui infortunio probabilmente preclude ai Nuggets una clamorosa corsa verso il titolo.

Gli anni ai Golden State Warriors costituiscono per Iguodala l’upgrade definitivo della sua carriera e occupano i capitoli conclusivi del libro. Prima l’anno con Mark Jackson, coach spesso dimenticato ma che pose le basi per la futura dinastia, quindi l’arrivo di Kerr, che stupisce tutti per la sua semplicità ed efficacia nel gestire la squadra. “Andre – le sue parole – voglio soltanto che tu venga in palestra ogni giorno per lavorare e divertirti. Ami la pallacanestro e vuoi divertirti? Fallo. So che puoi essere un leader di questa squadra. Anche Steph lo è. Tutto quello che devo fare io è mettervi nella giusta posizione per farvi funzionare al meglio“. L’intuizione del Death Lineup, il primo titolo, gli Splash Brothers, la cavalcata delle 73 vittorie pagata a durissimo prezzo, l’incontro degli Hamptons Five e l’arrivo di Kevin Durant: un’analisi lucida delle dinamiche che hanno reso imbattibili, ma anche logorato, una squadra come quegli Warriors.

Dai sogni di bambino fino al gradino più alto della NBA, la pallacanestro è stata la fedele compagna di viaggio di Iguodala. Un punto di riferimento essenziale per crescere e migliorare come persona, così come quella lettura di libri e giornali a cui sua madre lo ha abituato fin da piccolo. Il sesto uomo mette in evidenza che senza l’atteggiamento e le persone giuste è impossibile raggiungere certi traguardi, così come altrettanto fondamentale è formarsi una consapevolezza sul mondo che ci circonda. A maggior ragione se sei un afroamericano in una nazione in cui il colore della pelle è ancora il discrimine più grande tra l’avere o meno la possibilità di farcela. E Andre Iguodala non si è mai rassegnato a “star zitto e palleggiare”.

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