Libri di basket: “The Jordan Rules” di Sam Smith

Il successo di The Last Dance, la docuserie ESPN-Netflix del 2020, ha favorito una nuova proliferazione di libri sull’epopea dei Chicago Bulls di Michael Jordan. Alle nuove edizioni di titoli già sul mercato, se ne sono aggiunti altri mai pubblicati prima in Italia. È il caso di The Jordan Rules di Sam Smith (Baldini+Castoldi), con nuova prefazione dell’autore e traduzione di Riccardo Vianello, uscito in America nel 1991 e diventato uno dei maggiori bestseller sportivi di sempre.

All’epoca cronista del Chicago Tribune, Smith nelle 600 pagine di The Jordan Rules racconta l’intera stagione NBA 1990-91 in cui i Bulls (e Jordan) conquistano il loro primo titolo, dando inizio a una dinastia che segnerà il decennio, mutando la percezione che il mondo aveva del 23 in divisa rossonera. L’esperienza di Sam Smith, introdotto nella Hall of Fame, è quella del beatwriter. Ossia il giornalista che vive a stretto contatto con la squadra e che da tale osservatorio privilegiato riesce ad avere accesso a retroscena e testimonianze esclusive.

L’opera è un racconto dettagliato, ricco di aneddoti e riflessioni, che conduce il lettore nella vita di una franchigia NBA. Analizzando il punto di vista di giocatori, coach e management, i cui rapporti sono spesso travagliati, Smith offre la narrazione quotidiana di un’annata fatidica per Chicago. Dagli equilibrati report del giornalista emerge netto il tema centrale del libro: il percorso di maturazione di una squadra in cui convivevano individualismi esasperati (non solo Jordan) ma che è riuscita, nella fase cruciale, a mettere da parte i problemi, fare quadrato e vincere l’anello. Un processo in cui MJ comprende che, per trionfare, un leader ha bisogno dei compagni.

the jordan rules detroit pistons

The Jordan Rules: un titolo, più significati

Il titolo dell’opera contiene il filo conduttore di tutta la storia. The Jordan Rules sono “le regole per Jordan”. Cioè quei particolari “accorgimenti” in campo che i Detroit Pistons, rivali dei Bulls con la fama di giocare duro ai limiti del regolamento (non per niente erano i “Bad Boys”), riservano a Michael per arginare il suo strapotere cestistico. Ma The Jordan Rules sono anche le regole “di” Jordan. Perché il padrone incontrastato dei Bulls è lui. E la grande sfida è essere un team vincente nonostante l’ingombrante presenza del dio del basket.

Jordan, allora ventottenne, è considerato il migliore in assoluto. Il suo individualismo, però, impedisce ai Bulls di sviluppare un vero gioco collettivo. I sogni di gloria di Chicago si infrangono sempre contro il muro dei Pistons, non dando mai l’impressione di poter vincere davvero il campionato. Infatti, il libro si apre con i playoff 1990, conclusi con l’eliminazione in gara 7 di finale di conference, quella della famosa emicrania che annulla Scottie Pippen.

Digerita quella sconfitta, i Chicago Bulls tornano a essere una squadra in missione, pur dovendo fare i conti con una mancanza di unità e con una situazione che altri team non hanno: integrare la presenza di MJ. Un aspetto che condiziona fortemente le dinamiche di gruppo. Ed è interessante apprendere da Smith i modi con cui il “maestro zen” Phil Jackson, il saggio proprietario Jerry Reinsdorf (l’unico che a un certo punto riesce a fare una bella ramanzina a Jordan, o forse l’unico che se lo può permettere) e del general manager Jerry Krause, mal sopportato dai giocatori, mantengono i delicati equilibri.

chicago bulls 1991 los angeles lakers

Michael Jordan e gli altri

The Jordan Rules offre un ritratto sincero e approfondito del Michael Jordan di allora. Un personaggio controverso, a tratti persino detestabile, che però si dimostra un leader dotato di grande prontezza di spirito. E riesce a giustificare il suo egoismo con una competitività e una volontà di ferro mai visti in un cestista.

Michael ama sfidare se stesso e i compagni. La sua leadership consiste nello spingere gli altri verso limiti che forse non sanno di poter superare, senza mai distogliere lo sguardo dal traguardo. Anche a costo di criticarli ferocemente in ogni occasione, un massacro verbale che non tutti sono sempre disposti ad accettare. L’abitudine di sedersi sempre in fondo alla panchina, lasciando uno spazio tra sé e il resto della squadra, sottolinea la distanza che c’era tra lui e gli altri Bulls.

Ma è il club, conscio di non poter fare a meno della star più grande, a riservargli di fatto un trattamento diverso. Emblematica una frase di Phil Jackson, in risposta alle rimostranze di alcune riserve, stanche dei continui attacchi da parte di Jordan: “La vita non deve essere per forza giusta. Le regole sono diverse, per voi e per Jordan e Pippen. Loro sono qui per prendersi i tiri e voi no. Voi siete qui per fare ciò che vi viene chiesto, ed è solo questo che ci si aspetta da voi“.

Credits: Chicago Tribune

La vittoria prima di tutto

Se è vero che è da un attrito che si accende un fuoco, l’avventura dei Chicago Bulls 1990-91 è quella di una squadra che, pur convivendo con forti malcontenti interni, supera comunque ogni ostacolo. In regular season è 61-21. Quindi, nei playoff elimina senza soffrire New York, Philadelphia, Detroit e alle finali i Lakers. In finale di conference, la resa dei conti. I Pistons sconfitti 4-0, con Isiah Thomas e gli altri “Bad Boys” che lasciano il campo senza salutare gli avversari.

Nei playoff Jordan inizia finalmente a coinvolgere i compagni (li definisce “supporting cast“) e a instaurare con Jackson un rapporto sempre più stretto. Ciò che sul parquet accomuna in ogni caso quei Bulls (difesa, contropiede, tiro, continuità, più l’ostilità per Krause) diventa la chiave del primo titolo. Coach Jackson sostiene che, fino a quando il gruppo continua a unirsi in partita e a sfruttare il proprio talento per vincere, gli screzi interni non hanno importanza.

Phil è sì un fervido credente nel gioco di squadra, nell’attacco Triangolo e nel legame che si crea quando i suoi elementi condividono un viaggio speciale come la vittoria di un campionato. Ma è anche consapevole che da Michael Jordan non si può prescindere. E deve trovare il modo di assecondarlo senza compromettere gli equilibri: le fortune dei Bulls nascono da qui. Ha un mantra, una frase di Rudyard Kipling che ben si addice a quei Bulls: “La forza del branco è il lupo, e la forza del lupo è il branco“.

Scrive Sam Smith: “Avevano superato prove durissime, in quella stagione. Avevano vissuto insieme da ottobre, dividendo sudore e gloria, a volte compatibili come gatti randagi di un vicolo, e lontani come amanti in rottura. Erano perciò cresciuti insieme, accettando le debolezze reciproche e condividendo il successo di tutti. Nessuno era arrivato a un traguardo simile prima di allora“.

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